In arrivo nelle sale italiane il 9 marzo, Missing è lo stand-alone prequel del film uscito nel 2018 Searching. L’idea alla base narrativa è pressoché identica: un thriller che si spinge ad analizzare la conoscenza più intima delle persone che ci circondano.
June (Storm Reid) è una ragazza di appena diciotto anni che vive da sola con sua madre. La donna (Nia Long), che sta provando a rifarsi una vita dopo tanto tempo, decide di partire col nuovo fidanzato (Ken Leung) per una vacanza in Colombia, ma non farà mai ritorno da questo viaggio. Quando, infatti, June andrà in aeroporto si renderà conto che qualcosa di strano sta accadendo, ma dovrà scontrarsi contro un muro burocratico che non le permetterà di riuscire a trovare tutti gli indizi necessari per poter ritrovare sua madre. Dov’è finita la donna? Perché la geolocalizzazione del suo cellulare non funziona? Cosa le è successo?
Quello che Missing ci propone è un thriller che cerca di trovare la sua base sui colpi di scena di questa assurda indagine investigativa. Ciò che viene, principalmente, messo in luce è quanto facile sia riuscire a trovare i dati personali della persona che si vuol cercare. June cercherà di abbattere lo stallo nel quale le indagini ristagnano agendo per conto proprio e cercando tutti i dettagli sulla vita del nuovo ragazzo di sua madre. I particolari che emergeranno faranno sì che la trama prenda di volta in volta una piega sempre più oscura e più intricata cercando di giocare col “plot twist” solo per poter cercare di direzionare l’attenzione dello spettatore. E se, in un primo momento, siamo concentrati sulla vita di Kevin, lentamente ci sposteremo su quella di Grace (la madre) stessa. June, quindi, si troverà faccia a faccia con scomode verità che la donna le aveva taciuto.
La struttura filmica è pressoché identica a quella del precedente capitolo e il tutto è messo in scena attraverso una ripresa da telecamere diegetiche alla narrazione. Esattamente come un suono percepito dall’udito dei personaggi in scena, all’interno di questa pellicola ciò che lo spettatore vede è ripreso dalle telecamere posizionate all’interno degli oggetti usati dagli stessi protagonisti. Questo punto di vista ci permette di essere parte interessata all’interno della storia e se ne viene pienamente coinvolti, ma il tutto risulta quasi uno specchietto per le allodole.
Venendo coinvolti nell’emotività della protagonista, se non si presta la giusta attenzione, si viene forviati nel corso delle indagini e si viene risucchiati all’interno di un vortice distraente. Il tutto perché, in realtà, è anche fin troppo ovvio e le svolte che la narrazione tenta di prendere sono fin troppo palesi e intuibili. Basta un minimo di concentrazione per poter vedere tutti i diversi “deus ex machina” usati dagli sceneggiatori per poter mettere su questo film. Si finisce, in questo modo, col perdere il fascino del mistery per essere trainati in una sorta di Escape room dalla quale è fin troppo facile uscire.
La tecnologia permea la nostra vita e una pellicola del genere mette più in allarme sulla facilità con la quale i nostri dispositivi account possano essere controllati, piuttosto che essere trainati dal cuore del thriller. Ci sono delle criticità in questa struttura narrativa che emergono facilmente sotto l’occhio dello spettatore, anche se è interessante cogliere una sorta di critica nei riguardi della fascinazione del morboso che ultimante sta coinvolgendo sempre di più il pubblico. Il motivo per cui si guarda un film del genere è lo stesso che ci spinge a guardare i casi di true crime: ci piace scavare nel torbido degli altri. Non a caso, infatti, la stessa protagonista è appassionata di serie tv riguardanti l’argomento e svolge le proprie indagini come se fosse la protagonista di un qualche poliziottesco.
June tenta di farsi giustizia da sé, fa le proprie ricerche non riuscendo a trovare confronto e riscontro da parte delle autorità. È spinta dall’affetto che prova verso sua madre, così come anche dai sensi di colpa per non averla salutata. Una piccola riflessione, in tal senso, viene fatta sul rapporto tra genitori e figli. Una relazione complicata, non sempre riuscita, perché molto spesso manchevole di comunicazione e di comprensione. I genitori vorrebbero i propri figli sotto una campana di vetro, senza rendersi conto di esser abbastanza grandi da poter comprendere la verità. Allo stesso modo i figli, non riuscendo a mettersi nei panni dei propri genitori, non riescono a comprendere quella necessità di protezione.
Missing, in sostanza, ha dei difetti dati dalla sua scrittura. È fin troppo didascalico e non riesce a pieno a prendere le pieghe che vorrebbe, in questo modo non riesce a stravolgere lo spettatore con le sue verità. Al contrario è tutto praticamente già scritto e si intuisce il finale da circa metà pellicola.
Nessun commento:
Posta un commento