La “Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea” ha presentato negli ultimi mesi la mostra “Caring for a burning world”, oggi noi vorremmo fare un resoconto. Abbiamo approfittato dell’iniziativa che aveva previsto l’ingresso gratuito l’ultimo giorno della mostra di Gerardo Mosquera, e non ce ne siamo pentiti.
La mostra ha unito arte e cura per l’ambiente, trasmettendo valori ambientalisti attraverso il mezzo artistico.
Già autoesplicativa si staglia l’opera simbolo all’entrata della galleria: “Hot Spot” un’istallazione di Mona Hatoum che rappresenta una terra sofferente a causa del riscaldamento globale. Le luci al neon disegnano i diversi continenti che emanano un rosso vivo, una retorica che indica il cambiamento climatico.
Le altre opere presenti non sono state certo di minore impatto, solo per citarne distrattamente alcune:
- Testimonianze fotografiche che ci avvicinano a mondi per noi lontani ma che testimoniano già i danni causati dall’uomo, mostrandoci gli effetti dell’innalzamento del livello del mare.
- Un intero landscape costituito interamente da bottiglie di plastica, la sola visione da una sensazione di soffocamento che stordisce i nostri criteri interpretativi.
- Sculture di animali che hanno incontrato la morte, sculture di un realismo agghiacciante commoventi nella loro cruda rappresentazione.
- Dipinti che testimoniano decomposizione e decadimento, qui la pittura è utilizzata sapientemente per enfatizzare l’effetto di un corpo animale che ha perso la vita.
- Tronchi sezionati e dotati di specchio, per farci riflettere sul nostro rapporto con la natura e su quanto i danni causati all’ambiente siano in realtà mali auto-inferti.
Il 25 Febbraio, all’interno della galleria si è anche tenuta la performance di Ayrson Heráclito e Joceval Santos. Si tratta di un rituale di purificazione chiamato Ebò che affonda le sue radici nella tradizione afro-brasiliana. La sacralità del rito permeava nell’intera sala, mentre i tre performer esorcizzavano simbolicamente i mali che affliggono il pianeta terra.
I tre performer entrano in sala e iniziano a contemplare una riproduzione in scala del globo terrestre, sospesa su un filo.
Uno dei tre performer si è poi avvicinato a un tavolo colmo di strumenti musicali folcloristici che non avevamo mai visto, e li ha usati per accompagnare le azioni degli altri due.
I restanti performer si sono occupati di “nutrire” la terra, offrendo alimenti al suddetto globo, spalmando su di esso legumi, pane e altro ancora.
Oltre alla singolarità della performance, siamo rimasti anche colpiti dai profumi che si espandevano per la sala. Il globo infatti è stato trattato con alloro e liquidi aromatici, dando infine una purificazione simbolica attraverso il talco. L’esperienza ha dunque coinvolto anche il senso dell’olfatto, legandolo al visuale e al sonoro.
Probabilmente tale rito nasce slegato dall’ambiente artistico, ma nelle sue forme e nei suoi effetti trova piena analogia all’insieme eterogeneo di pratiche che siamo soliti definire “arte”.
Siamo rimasti piacevolmente colpiti. Una volta usciti dal museo, ci siamo sentiti rinnovati nei pensieri e nello spirito, lasciandoci maturare una riflessione: chissà se l’arte davvero contribuirà a salvare il mondo.
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