Penso sia arrivato il momento di scrivere questo articolo, anche se qualcosa lo abbiamo già anticipato con “La matrice della rimembranza”. Scrivo sperando che questo articolo della categoria “pensieri” non equivalga a una prenotazione all’inferno nel girone dei golosi.
Partiamo da una base antropologica. Il concetto di dolce sembra associato per tutti a qualcosa di gradevole. Lo riteneva già Burke nel lontano Seicento, quando scrisse di come la sensazione del gusto dolce corrisponda al piacere per tutti gli esseri umani. Una figura retorica scaturita dalla sensazione del palato che successivamente si è riversata attraverso la sinestesia anche ad altre esperienze.
Ma partiamo dall’origine, da quelle sensazioni sul palato che alcuni potrebbero pure trovare stucchevoli (nonostante continuino a utilizzare e comprendere l’utilizzo retorico della parola “dolce”).
“Quel piacere dolce-amaro
che pervade l’esperienza:
momento di delizia, diletto raro
nella totalizzante ambivalenza”.
- Gianluca Boncaldo, Panna e caffè
Anche attraverso la mescolanza di esperienze, la complementarietà del dolce con l’amaro permette di nobilitare entrambi gli aspetti, come quando si mette la panna dentro il caffè.
Ma nonostante tutto, nonostante le innumerevoli esperienze di sintesi e di educazione a quelli che Burke definiva “piaceri alieni” (come quello di apprezzare il caffè, nonostante sia amaro), si continuerà ad associare nel linguaggio comune il dolce al piacevole e l’amaro allo spiacevole.
Allora l’impresa di oggi sarà risalire alla radice dell’esperienza di ciò che è dolce, cercando di comprendere perché abbia avuto questo privilegio nel linguaggio figurato.
Questo pensiero ha trovato risposta in un’esperienza particolare, nonostante questi pensieri già vagassero nel mio inconscio. Ho semplicemente assaggiato una torta al cioccolato fondente con copertura di cioccolato fondente e guarnita di crema al cioccolato fondente.
Stavo mangiando fuori, e da quando mi sono seduto per ordinare il pranzo ho sentito l’impulso di scrivere una quartina. Mentre lasciavo che l’ispirazione mi sorprendesse, è arrivata una portata. Si trattava di pici al gusto “dolceforte” (qualcosa di una bontà inenarrabile, un contrasto di sapori che soddisfava ogni papilla gustativa). Finisco la deliziosa pietanza e continuo a lasciarmi trasportare per scrivere la quartina. Mentre stavo cercando di cogliere ulteriori parole da inserire nei versi, arriva un’altra portata: la suddetta fetta di torta al cioccolato fondente.
Vedendo tale meraviglia sulla mia tavola, interrompo la mia attività e assaggio la torta.
Alcuni dolci non sono di questo mondo, non possono essere così buoni. Fu il momento in cui ho compreso, risalendo dall’esperienza specifica, ho avuto l’intuizione del concetto universale di dolce (di questo modo di indagare la realtà ne abbiamo già parlato in “Estetica ed esperienza”). Come se un ricordo situato antecedentemente alla radice del mio essere si fosse materializzato nella sua essenza nitida e allo stesso tempo sfuggevole.
Allora si è tutto schiarito nella mia mente, i significati sono emersi e sono giunti a me senza alcuno sforzo. Una volta finita la torta, ho concluso la quartina, ultimandola con le parole emerse in automatico da quell’esperienza. E in quel momento, rileggendo i quattro versi compiuti, ho percepito un brivido. Quella poesia senza titolo, che avevo iniziato poco prima di cenare, aveva assunto un senso corrisposto all’esperienza appena provata. Iniziandola, è stato come se avessi previsto quell’esperienza, e concludendola a fatto avvenuto è come se avessi ultimato la visione che mi era stata anticipata prima del dolce. Così, quella quartina senza titolo ha acquisito il nome di “Ricordi al cioccolato”.
“L’atmosfera soffusa nel pensiero etereo
cosparge le membra d’un antico brivido,
dolce sapore d’un gusto ancora vivido
giunge nel soffio d’un ricordo cinereo”.
- Gianluca Boncaldo, Ricordi al cioccolato
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