Il nuovo film di Sam Mandes, regista di 1917, ci porta all’interno dell’uggiosa Inghilterra. Siamo sulla costa nel 1980, il protagonista di questa storia è L’Empire, un cinema degli anni sessanta per metà in disuso. Quella che si dispiega davanti agli occhi dello spettatore è un racconto meta-cinematografico che si apre allo spettacolo della vita quotidiana. Empire of Light arriva nelle sale cinematografie, oggi, 2 Marzo.
All’interno di questo cinema veniamo a contatto con differenti persone e personalità. Prime fra tutte emerge Hilary Small, la vice-dirigente che si occupa sia del personale, che dell’intera gestione. I suoi panni sono indossati da una straordinaria Olivia Colman che riesce a far fluire tutto il suo talento in un’eccezionale emotività dirompente. Hilary, infatti, è un personaggio dannatamente complesso che si dispiega col fluire della narrazione: se, infatti, in un primo momento ci appare apatica e priva di stimoli, man mano che abbiamo modo di conoscerla, affrontiamo la tematica della malattia mentale. Nella sua fratturata psiche c’è un intero universo che, in un turbinio, confonde e incuriosisce lo spettatore. Una grande, forte e reale tinta che permette una meravigliosa rappresentazione della fragilità umana. Una donna forte, decorosa, nonostante tutti i suoi demoni nascosti in un passato che non abbiamo davvero modo di osservare, ma possiamo solo saggiare.
Al suo fianco troviamo il neo assunto Stephen, interpretato da Michael Ward. Attraverso la sua storia abbiamo modo di affrontare le difficoltà di un ragazzo di periferia che fronteggia ogni singolo giorno i commenti razzisti che gli si scagliano sulla pelle. Un’altra realtà, un’altra tessera di un puzzle che manifesta la complessità della vita.
La relazione tra i due, che non verrà mai realmente etichettata, fa del bene e del male allo stesso tempo. Cura e lenisce le ferite, ma si confronta con la difficoltà di vivere qualcosa di non convenzionale. Sono fuori dal comune, ma allo stesso tempo sono individui come chiunque altro. Due anime che riescono a trarre il meglio l’una dell’altra, anche se magari sono solo una leggera parentesi all’interno della loro reciproca esistenza.
Abbiamo Norman, il macchinista. Un delicatissimo Toby Jones che si cala negli indumenti di un padre che ha abbandonato il figlio quando era troppo immaturo per potersene assumere la responsabilità, ma che adesso ne sente la mancanza. Una distanza che, in un certo senso, si fa sentir ancor più forte quando lui inizia a insegnare il proprio mestiere a Stephen. Lui regola il fascio di luce, lui conosce il difetto del nostro nervo ottico che ci illude che quelle immagini si stiano davvero muovendo. Sprigiona, rullo dopo rullo, la magia della sala del cinema.
Allo stesso modo, Mendes affida a Colin Firth il ruolo dell’uomo che preferisce farsi una sveltina tradendo la moglie piuttosto che restare fedele. Un uomo che ha lasciato andare in malora metà del cinema restando nella monotonia della routine.
Pezzi di vita. Ecco cosa porta in scena Empire of Light, piccoli pezzi di luce che attingono dal vero per poter delineare un quadro complesso e intrigante. Si vogliono conoscere i dettagli, ma il cinema sceglie cosa raccontare e cosa dare in pasto al proprio pubblico, così come ognuno di noi decide cosa portare alla luce e cosa celare agli altri. Un film che parla di cinema e lo fa attraverso la sua magia, ma narrando storie tangibili. Un racconto illusorio e allo stesso tempo disilluso.
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