sabato 30 luglio 2022

#DivinaCommedia: Canto XV

Nel quindicesimo canto della Divina Commedia siamo ancora nel girone dei violenti contro Dio, la natura e l’arte. Abbiamo già visto i bestemmiatori, nel canto precedente, mentre oggi ci approcciamo ai sodomiti; questi due canti, a loro dedicati, sono molto oscuri, tant’è che molti storici e commentatori non sono ancora in grado di capire il perché ci siano certi nomi, né quale sia la pena effettiva inflitta.
Un po’ sorridiamo, perché a molte domande può rispondere la chiave di lettura esoterica, e siamo proprio qui per questo.
Se rimaniamo nella sfera più superficiale, per “sodomita” si intende chi ha intrapreso relazioni omosessuali, ma Dante non condanna l’omosessualità. Ricordiamoci che Dante è ogni personaggio che incontra, così come lo siamo noi che leggiamo. La filosofia di Dante era che ogni gesto, opera e parola avesse come scopo Dio. In questo caso la sodomia riguarda tutti quegli atti che noi pensiamo di fare in Suo nome ma che in realtà provengono dal nostro Ego. Stiamo nel raccontarcela, insomma.
Certo, era pur sempre il 1300, l’omosessualità era severamente sanzionata, ma per Dante il senso è: anche se pensi di agire per amore, se non hai come scopo Dio, allora è peccato. (Ricordiamo il senso esoterico di peccato: mancare il bersaglio).     
Nel 2022 certe idee sono più che superate, il sesso senza amore è accettato, quindi possiamo interpretare il senso del canto con maggiore profondità: qualsiasi gesto di carità non ha valore, se poi nel nostro intimo utilizziamo parole d’odio o giudizio nei confronti degli altri.
Scusateci la lunga introduzione, ma è necessaria per la descrizione di un canto non proprio semplice.

Ora cen porta l’un de’ duri margini;
e ‘l fummo del ruscel di sopra aduggia,     
sì che dal foco salva l’acqua e li argini.

Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,
temendo ‘l fiotto che ‘nver’ lor s’avventa,
fanno lo schermo perché ‘l mar si fuggia;

e quali Padoan lungo la Brenta,
per difender lor ville e lor castelli,
anzi che Carentana il caldo senta:

a tale imagine eran fatti quelli,
tutto che né sì alti né sì grossi,
qual che si fosse, lo maestro félli.

Gia eravam da la selva rimossi
tanto, ch’i’ non avrei visto d’vera,
perch’io in dietro rivolto mi fossi,

quando incontrammo d’anime una schiera
che venian lungo l’argine, e ciascuna
ci riguardava come suol da sera

guardare uno altro sotto nuova luna;
e sì ver’ noi aguzzavan le ciglia
come ‘l vecchio sartor fa ne la cruna.

Dante e Virgilio continuano a camminare lungo le sponde del Flegetonte e osservano le anime dei sodomiti: costretti a camminare sotto una pioggia incessante di fuoco, possono coprirsi solo il volto. Dante e la sua guida, però, sono immuni alle fiamme perché il vapore che emana il fiume fa come da barriera.
Dal punto di vista esoterico, l’immagine che noi abbiamo avuto è stata quella della purificazione. Il calore, infatti, è ancora oggi utilizzato come forma di rilassamento e depurazione, basta pensare alle saune o alle sorgenti di acque termali.
Certo, questo vapore protegge solo Dante e Virgilio, ma è pur sempre dato dal fiume che lì scorre. È come se Dante cominciasse a vedere in se stesso tutte le volte che se la racconta, e solo questo basta per proteggersi dal peccato.

Così adocchiato da cotal famiglia,
fui conosciuto da un, che mi prese
per lo lembo e gridò: «Qual meraviglia!».

E io, quando ‘l suo braccio a me distese,
ficcaï li occhi per lo cotto aspetto,
sì che ‘l viso abbusciato non difese

la conoscenza süa al mio ‘ntelletto;
e chinando la mano a la sua faccia,
rispuosi: «Siete voi qui, ser Brunetto?»

E quelli: «O figluol mio, non ti dispiaccia
se Brunetto Latino un poco teco
ritorna ‘n dietro e lascia andar la traccia».

I’ dissi lui: «Quanto posso, ven preco;
e se volete che con voi m’asseggia,
faròl, se piace a costui che vo seco».

Improvvisamente Dante riconosce un anima: Brunetto Latini, di cui il poeta era discepolo. Il rapporto tra i due era di profonda stima e amicizia, quindi quando si sono riconosciuti, Brunetto propone di parlare e stare insieme, ma purtroppo non può fermarsi, quindi anche Dante deve camminare assieme a lui, sempre ben protetto.
Vi raccontiamo brevemente la vita di Brunetto Latini, giusto per avere qualche nozione in più: nacque a Firenze nel 1220 circa, fu notaio, e dal 1260 ambasciatore presso il re di Castiglia, Alfonso X. Anche lui partecipò alla guerra tra guelfi e ghibellini, schierandosi tra i primi, di cui era un noto rappresentante. Fu l’autore del Tresor, un trattato in lingua oil – antica lingua francese – in cui si parla dell’origine del mondo, astronomia, geografia, etica e retorica; un’altra opera da lui scritta, da citare assolutamente, è il Tesoretto, dove immagina di essersi perso per una “selva diversa”, e camminando incontra diversi regni: della Natura, della Virtù e dell’Amore.
La sua reputazione cominciò a scemare per cause politiche, e anche per una relazione omosessuale che pare abbia intrapreso, nonostante fosse sposato e con figli.

«O figliuol», disse, «qual di questa greggia
s’arresta punto, giace poi cent’anni
sanz’arrostarsi quando ‘l foco il feggia.

Però va oltre: i’ ti verrò a’ panni;
e poi rigiugnerò la mia masnada,
che va piangendo i suoi etterni danni».

Come abbiamo già detto, i sodomiti non possono fermarsi, e Brunetto ci spiega il perché: chi lo fa rimane fermo per cent’anni sotto il fuoco che scende dal cielo, senza alcuna protezione, non che ne avessero effettivamente una. Ma se camminano, le mani possono coprire il volto e proteggerlo dalle fiamme. Per questo l’immagine che abbiamo è di quando ripetiamo imperterriti comportamenti dell’Ego, credendo di non nutrirlo. Quando ce ne accorgiamo, e ci fermiamo, siamo soliti punirci. Attenzione: non è ancora il caso di spiegare quanto le auto-punizioni, o le punizioni in generale, siano sbagliate, per questo ci sarà il Purgatorio. Per ora osserviamole e accettiamole.    
In noi non c’è mai giudizio quando vi facciamo domande o vi mettiamo di fronte un qualcosa che può far male. Vogliamo solo portare alla luce certe parti ombre, perché è fondamentale vedere per trascendere.

Io non osava scender de la strada
per andar par di lui; ma ‘l capo chino
tenea com’uom che reverente vada.

El cominciò: «Qual fortuna o destino
anzi l’ultimo dì qua giù ti mena?
e chi è costui che mostra ‘l cammino?»

«Là sù di sopra, in la vita serena»,
rispuos’ io li, «mi smarri’ in una valle,
avanti che l’età mia fosse piena.

Pur ier mattina le volsi le spalle:
questi m’apparve, tornand’ïo in quella,
e reducemi a ca per questo calle».

Ma ‘l capo chino/tenea com’uom che reverente vada.” Come si può solo pensare che Dante condanni gli omosessuali, quando cammina in questo modo accanto a Brunetto? Dante è riverente, gli porta così tanto rispetto che non solo è a capo chino, ma non gli chiede il perché sia qui, né fa caso alla punizione inflitta, non approfondendola.
Brunetto gli domanda come mai sta affrontando questo viaggio, e Dante comincia a spiegargli come si sia perso nella sua “valle”.     

Ed elli a me: «Se tu segui tua stella,
non puoi fallire a glorïoso porto,
se ben m’accorsi ne la vita bella;

e s’io non fossi sì per tempo morto,
veggendo il cielo a te così benigno,
dato t’avrei a l’opera conforto.

Qui ci sono due interpretazioni per “tua stella”, che noi uniremo. In realtà ci piacciono entrambe, e comunque una non esclude l’altra. La stella è un punto fisso, nel cielo, ma le costellazioni sono visibili a seconda dei periodi, delle stagioni. Brunetto gli consiglia di seguirla sempre, di mettere il focus su di essa. Dante è nato sotto la costellazione dei Gemelli, - troveremo il cielo dei Gemelli nel Paradiso – archetipo di chi è dotato di uno spirito intelligente, sempre volto al sapere e dal nuovo. Il destino di Dante è quello di essere un pioniere, coraggioso nel perseguire le sue idee, anche se non in linea con la morale del momento.
Brunetto si dispiace sia morto, perché se fosse ancora in vita, lo avrebbe potuto sostenere e consigliare meglio, mentre ora può solo dirgli: fai ciò a cui sei destinato, e non potrai mai fallire.
Eh sì, perché tutti noi stiamo qui per un motivo specifico. Non ci è dato saperlo, non potremmo mai, ma se agiamo guidati dall’amore e da ciò che è la nostra stella (i nostri ideali, ciò che ci stimola, che ci dà un motivo per alzarci dal letto) allora non potremmo sbagliare, anche se in molti - noi per primi - ci potrebbero remare contro. Non è facile seguire la nostra stella, al contrario, preferiremmo di gran lunga non farlo, ma è tutto ciò che serve per dare un senso profondo alla vita.

Ma quello ingrato popolo maligno
che discese di Fiesole ab antico,
e tiene ancor del monte e del macigno,

ti si farà, per tuo ben far, nimico;
ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi
si disconvien fruttare al dolce fico.

Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;
gent’è avara, invidiosa e superba:
dai lor costumi fa che tu ti forbi.

La tua fortuna tanto onor ti serba,
che l’una parte e l’altra avranno fame
di te; ma lungi fia dal becco l’erba.

Faccian le bestie fiesolane strame
di lor medesme, e non tocchin la pianta,
s’alcuna surge ancora in lor letame,

in cui riviva la sementa santa
di que’ Roman che vi rimaser quando
fu fatto il nido di malizia tanta».

E tornando al discorso che sarebbe più facile non seguire il proprio destino, in questi versi, anche Brunetto fa la previsione dell’esilio a Dante. Gli dice, in poche parole, che i suoi concittadini possono essere maligni, invidiosi e superbi (oggi li chiameremmo haters) e per questo lo porteranno via dalla sua amata Firenze.
In più, prestiamo attenzione qui: “che l’una parte e l’altra avranno fame/ di te; ma lungi fia dal becco l’erba.” quante volte abbiamo voluto prendere una decisione a tutti i costi? Pro-vax contro no-vax, destra contro sinistra, filorussi, anti Russia… Avere un’opinione è fondamentale, sacrosanto. Dante stesso condanna nel modo peggiore gli ignavi. Ma altrettanto fondamentale è non prendere parte a una battaglia. Si può essere di uno schieramento, senza per forza dover litigare con l’altro. Ecco perché Brunetto ricorda a Dante che è importantissimo non mangiare dal becco l’erba. Bisogna cercare di non cadere in una tale trappola totalmente egoica dell’io sono meglio perché…

«Se fosse tutto pieno il mio dimando»,
rispuos’ io lui, «voi non sareste ancora
de l’umana natura posto in bando;

ché ‘n la mente m’è fitta, e or m’accora,
la cara e buona imagine paterna
di voi quando nel mondo ad ora ad ora

m’insegnavate come l’uom s’atterna:
e quant’io l’abbia in grado, mentr’io vivo
convien che ne la mia lingua si scena.

Ciò che narrate di mio corso scrivo,
e serbolo a chiosar con altro testo
a donna che saprà, s’a lei arrivo.

Tanto vogl’io che vi sia manifesto,
pur che mia coscïenza non mi garra,
ch’a la Fortuna, come vuol, son presto.

Non è nuova a li orecchi miei tal arra:
però giri Fortuna la sua rota
come le piace, e ‘l villan la sua marra».

Ma Dante, più consapevole rispetto a qualche canto fa (lo potete rileggere cliccando qui) prende meglio la previsione, non la nega, né si arrabbia. La accetta, tanto che si commuove nel ricordo del suo maestro in vita, di quanto sia stato per lui importante. Lo ha educato, gli ha dato le basi per essere l’uomo che è, e ringrazia ancora per le nuove parole.
Dante risponde che ha ascoltato tutto, e se lo è annotato. Accetta il suo destino, e semmai arriverà a destinazione della donna (Beatrice, l’Anima) saprà fare a Lei tutte le domande necessarie.
È il vero e proprio: “sia fatta la tua volontà”. Quante volte recitiamo questo verso del Padre Nostro? Quante volte lo pensiamo davvero? Quante volte ci mettiamo a meditare o pregare per ottenere qualcosa? Siamo sul serio pronti a fare la volontà della nostra anima, o ce la stiamo raccontando?

 

 

Lo mio maestro allora in su la gota
destra si volse in dietro e riguardommi;
poi disse: «Bene ascolta chi la nota».

Né per tanto di men parlando vommi
con ser Brunetto, e dimando chi sono
li suoi compagni più noti e più sommi.

Ed elli a me: «Saper d’alcuno è buono;
de li altri fia laudabile tacerci,
ché ‘l tempo saria corto a tanto suono.

In somma sappi che tutti fur cherci
e litterati grandi e di gran fama,
d’un peccato medesmo al mondo lerci.

Priscian sen va con quella turba grama,
e Francesco d’Accorso anche; e vedervi,
s’avessi avuto di tal tigna brama,

colui potei che dal servo de’ servi
fu trasmutato d’Arno in Bacchiglione,
dove lasciò li mal protesi nervi.

Di più direi; ma ‘l venire e ‘l sermone
più lungo esser non può, però ch’i’ veggio
là surger nuovo fummo del sabbione.

Gente vien con la quale esser non deggio.
Sieti raccomandato il mio Tesoro,
nel qual io vivo ancora, e più non cheggio».

Poi si rivolse, e parve di coloro
che corrono a Verona il drappo verde
per la campagna; e parve di costoro

quelli che vince, non colui che perde.

Alla fine del canto, Brunetto fa i nomi di altre anime che sono nello stesso girone, per lo più artisti e clericali. Strano? Non proprio. Parliamo spesso in radio e negli articoli, di come Dio parli direttamente a due tipi di persone: gli artisti e i santi. Ecco perché sono proprio queste due le categorie che più se la raccontano. Facciamo parte della prima, e non vi neghiamo che spesso pensiamo: “Vabbè, ma io sono un’artista, ci sta che faccia questo tipo di vita.Balle. Ce la raccontiamo. Continuiamo a utilizzare il nostro Ego facendo finta che sia una chiave per fare la sua volontà. Non a caso siamo pienamente convinte che questi due canti siano totalmente per noi.    
Tra i nomi fatti troviamo Prisciano, Francesco d’Accorso e - anche se non esplicitamente - Andrea dei Mozzi. Storicamente non esiste fonte che li dichiari omosessuali, il che probabilmente rivela ancora di più come non sia la sodomia il vero e proprio peccato, ma il raccontarsela, l’agire per Ego credendo sia amore (Dio).
Alla fine Brunetto ricorda a Dante il suo “Tesoro”, l’opera di cui abbiamo parlato prima, e che in fondo non è così lontana dalla Divina Commedia…

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