Mettere nero su bianco i pensieri non è di certo cosa facile, farlo pubblicamente complica ancor di più questa faccenda. Un diario pubblico, ecco cosa sono i pensieri, e pur non avendo lo stesso rituale che ha Frè, mi approprio comunque delle sue frasi. Stavo leggendo “Un altro mare”, un articolo che quanto mai è stato catartico per i pensieri che hanno affollato la mia mente in questi giorni. Molto spesso, infatti, è più facile aiutare l’altro che noi stessi perché ci dimentichiamo che “l’aiutare il prossimo tuo” vuol dire proprio aiutare se stessi prima di chiunque altro.
Prendersi cura del sé più interiore è la cosa più complicata che esista. Molto spesso siamo troppo presi dal via via della giornata, dal susseguirsi dei giorni e degli impegni, così tanto occupati da lasciarci sfiancare giorno dopo giorno dalla fatica. Dimentichiamo, così, chi siamo. E ci facciamo fermare. Subiamo così tante battute d’arresto che molto spesso sembra quasi impossibile rialzarsi o ricucire le ferite. Dobbiamo solo imparare a mettere l’olio e il vino su quelle ferite per poterle ammorbidire e disinfettare, perché sapete cosa fa una ferita che pulsa? Diventa purulenta.
Quel pulsare, quel via via, quel non sentirsi e non fermarsi diviene una valanga. Diviene facile, quindi, dover amputare un arto. Non ci rendiamo però conto che quell’amputazione porta con sé delle conseguenze e per tali ragioni dei pesi.
Ci feriamo costantemente, urtiamo, ci facciamo dei lividi fisici senza neanche rendercene conto. Ma mai ci fermiamo a capire come quel segno violaceo abbia iniziato a decorare la nostra pelle, lo ignoriamo. Feriamo l’altro, lo urtiamo, lo bruciamo, ma anche in quel caso non riusciamo a mettere olio e vino sulle sue ferite, anzi… usiamo il sale. E vorrei poter dire che siamo come l’acqua del mare che sì, fa cadere la crosta e dopo risana meglio di prima, ma la verità è un’altra: siamo un coltello che viene conficcato nel costato e rigirato, ancora e ancora e non ci rendiamo conto di tutto ciò perché avviene nel silenzio più totale.
“Dimentica il passato. Ricorda la lezione” dice l’articolo di Frè, eppure… eppure è maledettamente più allettante cadere sempre negli stessi schemi. È più facile cedere all’orgoglio e alla vendetta pur di non ammettere quanto quel silenzio dia fastidio.
Forse, una volta completato questo articolo, è come se una parte di me se ne potesse andare. Ovvio che so che non è così, so che quella parte di me resterà sempre e si presenterà sotto diverse spoglie, ma forse per smascherarla basterà lo schiocco di dita di Zeus. Sì, parlare per scene di film mi viene da sempre più facile.
Il silenzio ha un peso, dicevamo. Crea tensioni. Viene riempito da sospiri. Diviene un muro che sembra a tratti invalicabile. Forse sarei dovuta nascere qualche anno prima per vedere Berlino Ovest ed Est unirsi per poter capire come effettivamente un muro possa essere abbattuto. Il silenzio che ricevo, o che ho ricevuto, mi spinge ad agire di conseguenza. Ed ecco che scatta la vendetta. La lezione viene presto dimenticata e il passato ritorna perché la ferita è purulenta. Perché non ho saputo dare a me quello di cui avevo esattamente bisogno per farla guarire, ma solo leggeri palliativi che finiva col farmi passare dall’affetto per una persona a quella successiva.
Il silenzio ha un peso, grava. Tra due persone, il più delle volte, è un macigno. Soprattutto se eri abituato a parlare, parlare, parlare con l’altro e all’improvviso ciò è stato rotto; o eri abituato a cercare l’altro, ma adesso non sai più che trovi dall’altro lato della cornetta.
Come vorrei che fosse facile non cadere negli stessi schermi.
La cosa positiva? Almeno adesso li vedo e posso capire come cercare di rimediare.
La cosa negativa? È che non li vedo abbastanza in tempo per rimediare e non per vendicare.
La cosa positiva? Almeno adesso li vedo e posso capire come cercare di rimediare.
La cosa negativa? È che non li vedo abbastanza in tempo per rimediare e non per vendicare.
Nessun commento:
Posta un commento