venerdì 15 luglio 2022

#MustToWatch: Fleabag

Attenzione, questo articolo contiene spoiler sulla serie.

Non sappiamo bene come descrivere “Fleabag”.
L’abbiamo iniziata a guardare per un motivo ben preciso aspettandoci una serie tv comica e ne siamo uscite completamente devastate.

Per questo in realtà dobbiamo fare un grandissimo mea culpa: insomma, dopo “Inside” (e “The Inside Outtakes”) e “Make Happy” di Bo Burnham, “Nanette” di Hannah Gadsby e “Humanity” di Ricky Gervais avremmo dovuto imparare la lezione ormai e capire che gli anglofoni quando fanno comicità la fanno – passateci il termine – come Cristo comanda e sanno perfettamente come e quando bastonare lo spettatore. E bastonarlo sul serio.
Non sappiamo esattamente in quale oscuro momento della nostra esistenza abbiamo pensato che lo humor inglese di “Fleabag” (trad. Sacco di Pulci) sarebbe stato più soft dello humor americano, australiano e britannico degli speciali menzionati poco sopra, ma sappiamo il perché: è una serie televisiva, e sono veramente poche le serie televisive comiche che ci lasciano veramente qualcosa.

Attenzione: l’articolo contiene spoiler!

La serie, prodotta dalla Two Brothers Pictures e dagli Amazon Studios per la BBC Three e distribuita successivamente su Amazon Prime Video è, in realtà, il classico esempio di un qualcosa che nasce per puro scherzo.
La sceneggiatrice e attrice inglese Phoebe Waller-Bridge infatti crea la sceneggiatura – o un primo abbozzo di essa – per sottostare a una sfida impostale da un suo amico: scrivere all’ultimo minuto uno sketch per uno spettacolo di stand up comedy della durata di soli dieci minuti; solo nel 2013 lo sketch diventa un vero e proprio spettacolo teatrale messo in scena per la prima volta a Edimburgo e dall’omonimo nome della serie televisiva.
La serie, composta da due stagioni – una uscita nel 2016 e una nel 2019 –, ha due caratteristiche che adoriamo particolarmente: è breve da guardare (conta di sei episodi a stagione ognuno di circa venti minuti) e in Italia è conosciuta solo da una nicchia molto ristretta di persone.

Solitamente se ci piace qualcosa non ci lasciamo fermare dalla popolarità di quella data cosa, ma “Fleabag” ha una caratteristica molto particolare che a posteriori ci fa apprezzare il fatto che quasi nessuno conosca la serie: la rottura della quarta parete.
La rottura costante della quarta parete.
La protagonista – che sì, si chiama proprio Fleabag – interagisce con noi costantemente: inizialmente solamente spiegandoci saltuariamente e in modo piuttosto distaccato alcune cose della sua vita, successivamente arrivando a scambiare con noi sguardi, occhiate e smorfie e addirittura riconoscendo la nostra esistenza all’interno della serie stessa.
Il fatto che questa opera sia di nicchia nel nostro paese, quindi, in questo caso per noi è un punto a favore enorme, in quanto aumenta a livelli esponenziali il senso di intimità che si instaura inevitabilmente tra noi e la protagonista nel corso delle dodici puntate.

Ma di cosa parlano, queste dodici puntate?

Fleabag (interpretata dalla stessa Phoebe Waller-Bridge) è una donna poco più che trent’enne che cerca di sopravvivere nell’immensa e caotica giungla che è la città di Londra, e pare proprio non ci sia niente di salvabile nella sua vita: i suoi rapporti con la famiglia sono pressoché inesistenti, fatta eccezione per quelli abbastanza frequenti con la sorella Claire (interpretata da Sian Clifford) che ama alla follia ma che non sa come approcciare – “perché gli manca il gene divertente” – e per quelli sporadici con il padre (interpretato da Bill Paterson) che la contatta solo per ricordarle degli appuntamenti senologici di routine e per mandarla a seminari pseudo-femministi, la sua migliore amica Boo (interpretata da Jenny Rainsford) con cui aveva aperto un bar si è uccisa; dopo il fatto il locale non vede clienti ed è sull’orlo del baratro, di conseguenza la nostra protagonista stessa è al limite della povertà e sembra proprio non riuscire a smettere di avere continui rapporti sessuali con uomini diversi.

Boo e Fleabag

No, non le stiamo facendo slut shaming, non ce ne può fregar di meno se una donna decide di fare sesso con cento uomini a settimana, se è questo quello che veramente vuole, ma quel che abbiamo detto è un dato di fatto: è proprio lei a esprimere a noi spettatori (e non solo, in realtà) il suo disagio nell’intrattenere tutti quei rapporti e allo stesso tempo il senso di impotenza nel non riuscire a rifiutare le avances degli uomini, anche di quelli che non gli piacciono e per cui prova quasi una repulsione fisica.

Fleabag è tante cose: diretta, brillante, simpatica, autoironica e sarcastica, ma è anche opportunista, avida, falsa, giudicante ed egoista, ma tutto ciò di fronte agli occhi della sua famiglia non ha alcun peso, quasi non la vedano come persona, ma come un ruolo da ricoprire.
Fleabag potrà anche essere una donna di trent’anni e poco più con tremila pregi e difetti, ma per Claire, per suo cognato Martin (interpretato da Brett Gelman), per suo padre e per la sua matrigna (interpretata da Olivia Colman) lei è sempre e solo una ragazzina con la smania di stare sotto ai riflettori, dispettosa e maleducata.
Claire e Fleabag
Non la vedono e probabilmente non la vedranno mai.
Sapete cosa significa? Forse lo capirete quando vi renderete conto del fatto che nel corso di dodici puntate e circa trecentododici minuti di serie non viene chiamata per nome nemmeno una volta. O chiamata in generale.
E lei ogni volta si comporta da ragazzina con la smania di stare sotto ai riflettori, dispettosa e maleducata, perché è esattamente quello che tutti si aspettano da lei. Non solo, ma da lei non accettano alcun comportamento più maturo, e lo vedremo quando durante una imbarazzantissima cena di famiglia Claire le urlerà contro in preda al panico e sposterà di forza l’attenzione su di lei, che fino a quel momento di attenzione non ne stava pretendendo affatto.
Perché abbiamo tutti un ruolo nelle nostre famiglie, e nel momento in cui smettiamo di ricoprire quel ruolo si inizia a sfaldare un ecosistema, si rompe un equilibrio.
E allora iniziamo ad assumere certi atteggiamenti con gli amici, con i colleghi, con i conoscenti… senza rendercene conto. Perché diamo per scontato che è quello che gli altri si aspettano da noi, perché diamo per scontato che quello sia il nostro ruolo nella società.

Ma lo è?

A rompere l’equilibrio della nostra protagonista all’inizio della seconda stagione arriva lui: il Prete (interpretato da Andrew Scott). Sarà seduto di fianco a lei proprio durante tutto il corso dell’imbarazzantissima cena di famiglia, in vesti comuni e Fleabag, in pieno stile Fleabag, ci proverà con lui per tutto il corso della serata.
O almeno, finché non scoprirà della sua natura da prete.
Il loro rapporto è complesso e complicato e si evolverà nel corso delle sei puntate in un rapporto romantico vero e proprio; non uno che può essere portato avanti, questo lo sanno entrambi e lo sa bene Fleabag quando nell’ultima puntata, seduta alla fermata dell’autobus, gli chiederà semplicemente “è Dio, non è vero?”.
Purtroppo – anche “per colpa” della presenza di Andrew Scott nei panni dell’ecclesiastico – il loro rapporto è stato ridotto semplicemente a una serie di commenti sconci sull’attore e sulle varie scene, all’angst della coppia impossibile e al primo innamoramento della nostra protagonista. E attenzione, queste cose ci sono eccome: soprattutto se siete o siete stati dei fan della serie tv del 2010 “Sherlock” (in cui Andrew Scott ha interpretato il Professor Jim Moriarty) sapete quanto tutte queste cose possono esserci.

La nostra domanda, però, è: ma quanti anni avete, tredici? Perché vanno anche bene gli ormoni, ma a un certo punto è importante anche saper andare oltre, saper vedere cosa può esserci dietro la rappresentazione di un rapporto di questo tipo.

“Vuole davvero scoparsi il prete o vuole scoparsi Dio?”

Chiede la psicologa a Fleabag, ed è sicuramente un modo poco ortodosso per estorcere un concetto da un paziente ma è anche vero che non solo è perfettamente in linea con il linguaggio utilizzato per tutto il corso della serie, arriva anche dritto al punto senza mezzi termini.
Prima di sdoganare questo concetto, però, “Fleabag” ne sdogana un altro immorale e depravato quasi, ma che esiste e che necessita di essere sdoganato, perché come tutte le cose che vengono represse, con il tempo esplodono e sfociano in violenza: l’attrazione sessuale per le figure religiose.
E allora si torna alla domanda della psicologa di Fleabag: quando proviamo attrazione per le figure religiose, la proviamo per loro o per il concetto che abbiamo di Dio, qualsiasi esso sia?
Perché che sia anche troppo idolatrato, odiato a morte o visto come figura assente ma voluta, comunque Dio in un modo o nell’altro è al centro delle nostre vite, anche se proviamo a metterlo da parte.

E questo in realtà è solo uno dei molteplici ragionamenti nati dopo aver assistito alle loro dinamiche.
È ovvio che potremmo esporvene altri (come, per esempio, il fatto che il prete sia l’unico ad accorgersi della rottura della quarta parete a l’unico a rompere la quarta parete a sua volta anche solo per un istante; Fleabag che in confessionale ammette in lacrime di aver bisogno di attaccarsi a una figura come lui perché non ha mai avuto qualcuno che gli dicesse quello che deve fare e come deve farlo), ma non lo faremo e non vi diremo altro. Dovete capire da voi cosa rende questa serie uno degli 80 migliori spettacoli della BBC di tutti i tempi secondo Telegraph e dovete capire da voi il perché si è riuscita ad aggiudicare ben quattro Emmy Awards e due Golden Globes.

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