sabato 2 luglio 2022

#DivinaCommedia: Canto XIV

Eccoci tornati a un altro appuntamento con la Divina Commedia. Siamo ancora allInferno, e anche se affrontiamo il terzo girone, Dante e Virgilio non lo possono passare ancora del tutto. Dopo aver appreso bene gli insegnamenti del canto precedente, possiamo vedere ciò che capita ai violenti contro Dio, la natura e l’arte, quindi troviamo: i bestemmiatori, i sodomiti e gli usurai. Vi ricordiamo che affrontiamo il tutto dal punto di vista esoterico. Inoltre vi ricordiamo che l’opera di Dante è di epoca medievale, e la sua morale adesso va – giustamente – rivista in certi punti; non per questo, però, va del tutto ignorata. 

Poi che la carità del natio loco
mi strinse, raunai le fronde sparte
e rende’le a colui, ch’era già fioco.

Indi venimmo al fine ove si parte
lo secondo giron del terzo, e dove
si vede di giustizia orribil arte.

A ben manifestar le cose nove,
dico che arrivammo ad una landa
che dal suo letto ogne pianta rimove.

La dolorosa selva l’è ghirlanda
intorno, come ‘l fosso tristo ad essa;
quivi fermammo i passi a randa a randa.

Lo spazzo era una rena arida e spessa,
non d’altra foggia fatta che colei
che fu da’ piè di Caton già soppressa.

O vendetta di Dio, quanto tu dei
esser temuta da ciascun che legge
ciò che fu manifesto a li occhi mei!

D’anime nude vidi molte gregge
che piangean tutte assai miseramente,
e parea posta lor diversa legge.

Supin giacea in terra alcuna gente,
alcuna si sedea tutta raccolta,
e altra andava continüamente.

Quella che giva ‘ntorno era più molta,
e quella men che giacëa al tormento,
ma più al duolo avea la lingua sciolta.

Sovra tutto ‘l sabbion, d’un cader lento,
piovean di foco dilatate falde,
come di neve in alpe senza vento.

Quali Alessandro in quelle parti calde
d’Indïa vide sopra ‘l süo stuolo
fiamme cadere infino a terra salde,

per ch’ei provide a scalpitar lo suolo
con le sue schiere, acciò che lo vapore
mei si stingueva mentre ch’era solo:

tale scendeva l’etternale ardore;
onde la rena s’accendea, com’esca
sotto focile, a doppiar lo dolore.

Sanza riposo mai era la tresca
de le misere mani, or quindi o quinci
escotendo da sé l’arsura fresca.
 

Per amor di patria, Dante raccoglie le fronde del fiorentino morto suicida, e quando si apprestano a lasciare il secondo cerchio per arrivare al terzo, la scena che si para davanti al Poeta lo lascia così sconvolto che vuole ammonire i lettori: non peccate di ciò in vita, perché la punizione sarà tremenda.  Circondata dalla selva dei suicidi, si estende davanti ai suoi occhi una pianura su cui ogni forma di vita è destinata a non fiorire. Difatti scendono dal cielo una pioggia di fuoco lenta che non solo colpisce i dannati, ma infuoca anche la sabbia, rendendo così la pena più dolorosa. Dante nota che ci sono diverse anime, alcuni giacciono a terra, sdraiati, (i bestemmiatori) altri sedevano rannicchiati (gli usurai) e altri ancora camminano senza sosta (i sodomiti). Essendo in epoca medievale, i sodomiti sono di numero maggiore rispetto ai bestemmiatori, i quali sono il minor numero di peccatori.

I’ cominciai: «Maestro, tu che vinci
tutte le cose, fuor che ’ demon duri
ch’a l’intrar de la porta incontra uscinci,

chi è quel grande che non par che curi
lo ‘ncendio e giace dispettoso e torto,
sì che la pioggia non par che ‘l maturi?».

E quel medesmo, che si fu accorto
ch’io domandava il mio duca di lui,
gridò: «Qual io fui vivo, tal son morto».

Se Giove stanchi ‘l suo fabbro da cui
crucciato prese la folgore aguta
onde l’ultimo dì percosso fui;

o s’elli stanchi li altri a muta a muta
in Mongibello a la focina negra,
chiamando ‘Buon Vulcano, aiuta, aiuta!’,

sì com’el fece a la pugna di Flegra,
e me saetti con tutta sua forza:
non ne potrebbe aver vendetta allegra».

Allora il duca mio parlò di forza
tanto, ch’i’ non l’avea sì forte udito:
«O Capaneo, in ciò che non s’ammorza

la tua superbia, se’ tu più punito;
nullo martiro, fuor che la tua rabbia,
sarebbe al tuo furor dolor compito».

Poi si rivolse a me con miglior labbia,
dicendo: «Quei fu l’un d’i sette regi
ch’assier Tebe; ed ebbe a par ch’elli abbia

Dio in disdegno, e poco par che ‘l pregi;
ma, com’io dissi lui, li suoi dispetti
sono al suo petto assai debiti fregi.

Or mi vien dietro, e guarda che non metti,
ancor, li piedi ne la rena arsiccia;
ma sempre al bosco tien li piedi stretti».

Dante chiede a Viriglio – il nostro maestro interiore – chi sia un’anima che rannicchiata al suolo urla, bestemmiando a Dio, quasi come se lo canzonasse. L’anima è così sprezzante e arrogante, che sembra non essere per niente toccata dal dolore. È l’anima stessa che gli risponde, anche se non interpellata direttamente. È il titano Capaneo – simbolo di superbia e di orgoglio – che come era in vita, è rimasto nella morte. Capaneo era tra i sette re che assediarono Tebe, e in vita era così superbo da credere che non esistesse nessuno maggior di lui. Così anche nella morte, lui si crede superiore a Dio – che chiama Giove – credendo che non temendolo, la pena prima o poi finirà. Virgilio gli urla – probabilmente anche perché loro sono fisicamente ancora nella selva, Dante non può camminare nella sabbia infuocata - con fermezza che la sua pena durerà in eterno, proprio perché lui continua a essere in questo modo.

Ancora una volta notiamo che il vero peccato è persistere nel mondo consapevole in un atteggiamento sbagliato. Fermiamoci e chiediamoci, quindi, quante volte ci sentiamo noi stessi onnipotenti. Non vogliamo dirvi di credere per forza in un Dio, non ci interessa. Vogliamo farvi notare, così come lo notiamo noi, quante volte nel corso della nostra vita abbiamo l’arroganza di voler controllare anche ciò che non è in nostro potere. Noi siamo Capeneo ogni volta che non lasciamo andare, che non ci lasciamo che sia…

Tacendo divenimmo là ‘ve spiccia
fuor de la selva un picciol fiumicello,
lo cui rossore ancor mi raccapriccia.

Quale del Bulicame esce ruscello
che parton poi tra lor le peccatrici,
tal per la rena giù sen giva quello.

Lo fondo suo e amo le pendici
fatt’era ‘n pietra, e ’ margini da lato;
per ch’io m’accorsi che ‘l passo era lici.

«Tra tutto l’altro ch’i’ t’ho dimostrato,
poscia che noi intrammo per la porta
lo cui sogliare a nessuno è negato,

cosa non fu da li tuoi occhi scorta
notabile com’è ‘l presente rio,
che sovra sé tutte fiammelle ammorta».

Queste parole fuor del duca mio;
per ch’io ‘l pregai che mi largisse ‘l pasto
di cui largito m’avëa il disio.

«In mezzo mar siede un paese guasto»,
diss’elli allora, «che s’appella Creta,
sotto ‘l cui rege fu già ‘l mondo casto.

Una montagna v’è che già fu lieta
d’acqua e di fronde, che si chiamò Ida;
or è diserta come cosa vieta.

Rëa la scelse già per cuna fida
del suo figliuolo, e per celarlo meglio,
quando piangea, vi facea far le grida.

Dentro dal monte sta dritto un gran veglio,
che tien volte le spalle inver’ Dammiata
e Roma guarda come süo speglio.

La sua testa è di fin oro formata,
e puro argento son le braccia e ‘l petto,
poi è di rame infino a la forcata;

da indi in giusto è tutto ferro eletto,
salvo che ‘l destro piede è terra cotta;
e sta ’ n su quel, più che ’ n su l’altro, eretto.

Ciascuna parte, fuor che l’oro, è rotta
d’una fessura che lagrime goccia,
le quali, accolte, fóran quella grotta.

Lor corso in questa valle di diroccia;
fanno Acheronte, Stige e Flegetonta;
poi se van giù per questa stretta doccia,

infin, là dove più non si dismonta,
fanno Cocito; e qual sia quello stagno
tu lo vedrai, però qui non si conta».

Virgilio nota che Dante osserva il fiume rosso scorrere, così gli spiega le origini dei fiumi dell’oltretomba. In una meravigliosa allegoria, Dante – attraverso le parole del suo maestro – ci mostra la natura umana. Secondo il mito, il Veglio di Creta è una statua gigantesca, situata nel monte Ida e formata da diversi metalli: oro di cui è formata la testa, (a rappresentare il libero arbitrio, o il momento della nostra vita in cui siamo esenti dai peccati) argento che forma il petto e le braccia, (rappresenta la ragione, il momento in cui prendiamo le nostre decisioni e cominciamo così a scegliere tra bene e male) rame la metà inferiore del tronco (è la nostra volontà, le azioni che facciamo quotidianamente) e il resto è di ferro (a rappresentare l’ira e la cupidigia) , tranne il piede destro che è di terracotta (simboleggia il potere spirituale corrotto). La statua dà le spalle all’Oriente, da dove deriva l’umanità, e guarda verso Roma, forse in rappresentanza del futuro. Dalle sue giunture si aprono come delle ferite – i peccati dell’Umanità – dai quali sgorgano i tre fiumi infernali: l’Acheronte, lo Stige, il Flegetonte e il lago di Cocito.

E io a lui: «Se ‘l presente rigagno
si diriva così dal nostro mondo,
perché ci appar pur a questo vivagno?».

Ed elli a me: «Tu sai che ‘l loco è tondo;
e tutto che tu sie venuto molto,
pur a sinistra, giù calando al fondo,

non sé’ ancor per tutto ‘l cerchio vòlto;
per che, se cosa n’apparisce nova,
non de’ addur maraviglia al tuo volto».

E io ancor: «Maestro, ove si trova
Flegetonta e Letè? Ché de l’un taci,
e l’altro di’ che si fa d’esta piova».

«In tutte tue question certo mi piaci»,
rispuose, «ma ‘l bollor de l’acqua rossa
dovea ben solver l’una che tu faci.

Letè vedrai, ma fuori di questa fossa,
là dove vanno l’anime a lavarsi
quando la colpa pentuta è rimossa».

Poi disse: «Omai è tempo da scostarsi
dal bosco; fa che di retro a me vegne:
li margini fan via, che non son arsi,

e sopra loro ogne vapor di spegne».

Dante è ancora curioso di sapere dove si trovano gli altri fiumi, Virgilio gli spiega che il Flegetonte è quello che vede, mentre il Letè lo vedrà quando arriverà nella vetta del Purgatorio. Gli ricorda anche che devono continuare ad avanzare, e di tenersi sui margini del bosco, dove la sabbia non può far lui del male. Nel prossimo Canto, quello dedicato a Brunetto Latini, troveremo i sodomiti.

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