sabato 25 febbraio 2023

#DivinaCommedia: Canto XXII

Oggi analizziamo il ventiduesimo canto dell’Inferno, e ci concentriamo su quanto sia effettivamente facile ingannare il nostro Ego, anche se spesso si manifesta a noi con pensieri intrusivi che ci fanno paura.    

Siamo spesso imprigionati, costretti a vivere limitati secondo la loro volontà. Certo, è compito dell’Ego liberare i suoi scagnozzi che possiamo definire diavoli; ma dobbiamo ricordarci costantemente, soprattutto se seguiamo un cammino spirituale, che è nostro compito seguire la voce interiore, compiere la volontà divina.

Al solito vi ricordiamo che analizziamo il canto solo ed esclusivamente dal punto di vista esoterico, comparandolo con quello che è stato ed è il nostro cammino spirituale.
Questi articoli, insomma, servono solo come spunti di riflessione su se stessi, dove ogni protagonista che incontriamo è una parte di noi. 

Io vidi già cavalier muover campo,
e cominciare stormo e far lor mostra,
e talvolta partir per loro scampo;

corridor vidi per la terra vostra,
o Aretini, e vidi gir gualdane,
fedir torneamenti e correr giostra;

quando con trombe, e quando con campane,
con tamburi e con cenni di castella,
e con cose nostrali e con istrane;

né già con sì diversa cennamella
cavalier vidi muover né pedoni,
né nave a segno di terra o di stella.

La volta precedente ci siamo lasciati con un’immagine non proprio simpatica ed educata: i demoni, come suono di battaglia hanno utilizzato una puzzetta. Ok, effettivamente potrebbe essere divertente, la nostra parte infantile riesce ad ammetterlo.
In questa intro Dante ammette che mai nel corso della sua vita ha udito quel tipo di segnale.
Sappiamo che così facendo Dante si estranea dalla scena, ne prende le distanze, probabilmente per alleggerire l’umore del lettore che potrebbe perfino arrivare alle risate.

È un primo consiglio che ci dà il Poeta su come trattare il nostro Ego: deriderlo.
Sono tanti i “demoni” – i pensieri intrusivi, spesso negativi che ci fanno credere a come tutto andrà male per noi – che ci circondano nel corso della giornata e crediamo più o meno a tutti loro.
Crediamo di non valere nulla, di non poter cambiare la nostra condizione, crediamo che siamo inferiori a qualcuno, crediamo che non ci sarà mai nulla di buono per noi…

Primo passo da compiere, sappiamo benissimo fa terribilmente paura, è quello di ridere di ogni scenario apocalittico che la nostra mente inscena per terrorizzarci.
 

Noi andavam con li diece demoni.
Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa
coi santi, e in taverna coi ghiottoni.

Ne la chiesa coi santi, e in taverna coi ghiottoni” è un modo di dire ancora oggi abbastanza usato. Il suo significato è molto chiaro: bisogna adattarsi alla compagnia in cui ci si trova.
Dante sa che sta in compagnia dei diavoli e sa che deve comportarsi di conseguenza.

È in uno stato di consapevolezza sicuramente avanzato, non a caso abbiamo superato metà dell’Inferno, ora riconosciamo quando ci si presenta a noi un “peccato”, un comportamento totalmente egoico. Abbiamo anche imparato a non giudicarlo, anche se a volte è veramente difficile.

Ora Dante ci consiglia una sorta di discernimento tra i nostri pensieri per capirne la provenienza. Possiamo intenderlo come: in che modo questo pensiero può aiutarti? Te lo stai dicendo per il tuo bene? Come ti fa sentire? A seconda delle risposte, comportati di conseguenza...

Riconoscere che tipo di emozione fa suscitare in noi un’immagine mentale è necessaria per capirne la provenienza, e come vedremo, questo richiede molta attenzione.

Pur a la pegola era la mia ‘ntesa,
per veder de la bolgia ogne contegno
e de la gente ch’entro v’era incesa.

Come i dalfini, quando fanno segno
a’ marinar con l’arco de la schiena
che s’argomentin di campar lor legno,

talor così, ad alleggiar la pena,
mostrav’alcun de’ peccatori ‘l dosso
e nascondea in men che non balena.

E come a l’orlo de l’acqua d’un fosso
stanno i ranocchi pur col muso fuori,
sì che celano i piedi e l’altro grosso,

sì stavan d’ogne parte i peccatori;
ma come s’appressava Barbariccia,
così si ritraén sotto i bollori.

Nella prima parte l’attenzione di Dante è tutta sui dannati e sulla pena che sono costretti a subire. Dante osserva ancora più da vicino la nera pece e nota come ogni tanto le anime cerchino di risollevarsi, per trovare un breve senso di sollievo, fino a quando Barbariccia non si avvicina, e allora le anime tornano a immergersi, per evitare una pena peggiore: essere infilzate dai suoi uncini.

Come avevamo detto nel canto XX, il simbolo della pece è come se fosse una mancata purificazione, forse perché quando commettiamo certi peccati (in questo caso la baratteria) non pensiamo di averne bisogno, in quanto non riconosciamo di aver sbagliato. Allo stesso tempo, però, quando proviamo a pensare che forse non siamo del tutto innocenti, preferiamo ignorare perché i sensi di colpa che ci dilatano fanno ancora più male.

I’ vidi, e anco il cor me n’accapriccia,
uno aspettar così, com’elli ‘ncontra
ch’una rana rimane e l’altra spiccia;

e Graffiacan, che li era più di contra,
li arruncigliò le ‘mpegolate chiome
e trassel sù, che mi parve una lontra.

I’ sapea già di tutti quanti ‘l nome,
sì li notai quando fuorono eletti,
e poi ch’e’ si chiamaro, attesi come.

«O Rubicante, fa che tu li metti
li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi!»
gridavan tutti insieme i maladetti.

E io: «Maestro mio, fa, se tu puoi,
che tu sappi chi è lo sciagurato
venuto a man de li avversari suoi».

Ora Dante ci dice che lui ha prestato moltissima attenzione a tutti i nomi dei demoni. Lo possiamo immaginare totalmente vigile, come se non si fosse perso neanche un movimento.

È proprio il momento più difficile di tutto il cammino interiore: cercare di capire perché, come e in che modo i nostri demoni ci parlano, ci minacciano, ci tengono sotto tiro.
Per riuscire, però, dobbiamo comportarci esattamente come Dante: osservare in silenzio.

Se ci avete fatto caso, anche nel canto precedente, è sempre stato Virgilio – la nostra guida interiore – a parlare con i demoni, Dante non ha proferito parola.

Ecco, per esperienza vi assicuriamo che è inutile mettersi a parlare con i pensieri, spiegare loro – o alla nostra mente – i motivi per i quali abbiamo scelto di non credere a ciò che dicono.     
L’atteggiamento di Dante è lo stesso che dovremmo seguire, magari supportandoci con un diario dove appuntiamo tutto quanto, descrivendo ciò che vediamo o sentiamo dentro di noi. Come Dante, però, possiamo domandare alla nostra guida interiore tutto ciò che vogliamo. In questo caso, Dante domanda a Virgilio chi è l’anima che è sotto le grinfie dei diavoli.
 
Lo duca mio li s’accostò allatto;
domandollo ond’ei fosse, e quei rispuose:
«I’ fui del regno di Navarra nato.

Mia madre a servo d’un segnor mi puose,
che m’avea generato d’un ribaldo,
distruggitor di sé e di sue cose.

Poi fui famiglia del buon re Tebaldo;
quivi mi misi a far baratteria,
di ch’io rendo ragione in questo caldo».

E Cirïatto, a cui di bocca uscia
d’ogne parte una sanna come a porco,
li fé sentir come l’una sdruscia.

Tra male gatte era venuto ‘l sorco;
ma Barbariccia il chiuse con le braccia
e disse: «State in là, mentr’io lo ‘nforco».


L’anima risponde a Virgilio di essere nata nel regno di Navarra e che la madre l’ha da subito mandato a servizio di un uomo che non solo ha scialacquato tutti i suoi beni, ma è anche morto suicida.
Da lì si è spostato a servizio di Tebaldo II (1239 circa- 1270. conte di Champagne e Re di Navarra dal 1253 al 1270) dove ha peccato di baratteria.

Dell’anima, ai giorni nostri, sappiamo molto poco, se non che i commentatori gli hanno dato il nome Ciampolo, probabilmente italianizzando il nome francese Jean Paul.

Come sempre vi diciamo, però, non è tanto importante avere queste nozioni, soffermiamoci su ciò che “vediamo”: Ciampolo sfida i diavoli rimanendo a parlare con Virgilio e Dante e non ne sembra spaventato, neanche nel momento in cui prima Ciriatto e poi Barbariccia minacciano di fargli davvero molto male.
Quest’ultimo sprona anche Viriglio a chiedere di più, se vuole, prima che si compia sull’anima tutta la sua ira.

E al maestro mio volse la faccia;
«Domanda», disse, «ancor, se più disii
saper da lui, prima ch’altri ‘l disfaccia».

Lo duca dunque: «Or dì: de li altri rii
conosci tu alcun che sia latino
sotto la pece?». E quelli: «I’ mi partii,

poco è, da un che fu di là vicino.
Così foss’io ancor con lui coperto,
ch’i’ non temerei unghia né uncino!».

E Libicocco «Troppo avem sofferto»,
disse; e preseli ‘l braccio col runciglio,
sì che, stracciando, ne portò un lacerto.

Draghignazzo anco i volle dar di piglio
giuso a le gambe; onde ‘l decurio loro
si volse intorno intorno con mal piglio.


Ciampolo ammette che sotto la pece ci sono delle anime italiane, ma non riesce a proseguire perché l’impulsività dei demoni ha la meglio: Libicocco è il primo che strappa un brandello di pelle, poi è seguito da Draghignazzo.
Dopo il primo colpo non sappiamo nulla di Ciampolo e di come abbia incassato il colpo, né se si sia lamentato. Perché?

Abbiamo lasciato un Dante attento osservatore e in passato lo abbiamo visto provare estrema empatia per tutti i dannati in cui si è imbattuto. Ha pianto per il loro dolore, e lo ha descritto così bene quasi da farcelo provare. Eppure, qui non si pronuncia, ed è più intenzionato a descriverci come i demoni sferrano i loro colpi.

Crediamo non sia un caso, ovviamente. I pensieri intrusivi ci fanno male, è un po’ come se fosse il loro compito, ma come abbiamo scritto in precedenza, e come diciamo spesso, mettersi a discutere con loro è tempo perso.

Sia Dante che Ciampolo conoscono bene l’aggressività dei demoni – anche i pensieri intrusivi sembrano arrivare un po’ a caso – e sanno anche che è inutile rispondere alla rabbia con rabbia. C’è bisogno di intelletto, ma non quello che ha a che fare con la mente, visto che è la loro grande produttrice.

Quand’elli un poco rappaciati fuoro,
a lui, ch’ancor mirava sua ferita,
domandò ‘l duca mio sanza dimoro:

«Chi fu colui da cui mala partita
di’ che facesti per venire a proda?»
Ed ei rispuose: «Fu frate Gomita,

quel di Gallura, vasel d’ogne froda,
ch’ebbe i nemici di suo donno in mano,
e fé sì lor, che ciascun se ne loda.

Danar si tolse e lasciolli di piano,
sì com’e’ dice; e ne li altri offici anche
barattier fu non picciol, ma sovrano.

Usa con esso donno Michel Zanche
di Logodoro; e a dir di Sardigna
le lingue lor non si sentono stanche.


E infatti Virgilio, sapendo anche lui tutto ciò, continua a parlare con Ciampolo come se nulla fosse e chiede chi siano queste anime. Il dananto gli risponde che appartengono a due sardi: frate Gomita e Michele Zanche (1203-1275). Il primo era un politico grande amico del giudice Nino Visconti di Gallura e in nome del loro rapporto erano soliti farsi favori in cambio di soldi, fama e prestigio; il secondo era vicario dello stesso Visconti di Gallura, ma della sua vita di certo si sa ben poco se non che è stato ucciso. Lo citeremo di nuovo, comunque, nel canto XXXIII dell’Inferno quando capiremo il perché del suo assassinio.

Omé, vedete l’altro che digrigna;
i’ direi anche, ma ‘i temo ch’ello
non s’apparecchi a grattarmi la tigna».

E ‘l gran proposto, vòlto a Farfarello
che stralunava li occhi per fedire,
disse: «Fatti ‘n costà, malvagio uccello!».

«Se voi volete vedere o udire»,
ricominciò lo spaürato appresso,
«Toschi o Lombardi, io ne farò venire;

ma stieno i Malebranche un poco in cesso,
sì ch’ei non teman de le lor vendette;
e io, seggendo in questo loco stesso,

per un ch’io son, ne farò venir sette
quand’io suffolerò, com’è nostro uso
di fare allor che fori alcun si mette».


Ciampolo, vedendo che i diavoli sono pronti e furiosi, riesce a pensare a un astuto piano per sfuggire alla sua sorte: sapendo che Virgilio e Dante sono curiosi di sapere chi altro c’è, e avendo notato i loro accenti lombardi e toscani, promette di tirare fuori almeno sette anime provenienti da quelle terre a patto che i demoni rimangano lontani, così da non spaventare chi verrà fuori.
Le parole di Ciampolo sono scelte appositamente, nella promessa in apparenza innocente, cela una sfida e una beffa. Il tono è controllato, quasi ossequioso, ma basta per compiere il piano? Stiamo a vedere notando, però, come anche un’anima all’Inferno sa come “parlare” ai suoi aguzzini: con astuzia, senza impulsività.
Chiediamoci: quante volte avremmo potuto mettere fine a un litigio ancora prima di iniziarlo, se avessimo agito con la calma? Se avessimo prima osservato l’insieme, invece che fossilizzarci sui dettagli per noi più fastidiosi?

Cagnazzo a cotal motto levò ‘l muso,
crollando ‘l capo, e disse: «Odi malizia
ch’elli ha pensata per gittarsi giuso!».

Ond’ei, ch’avea lacciuoli a gran divizia,
rispuose: «Malizioso son io troppo,
quand’io procuro a’ mia maggior trestizia».

Alichin non si tenne e, di rintoppo
a li altri, disse a lui: «Se tu ti cali,
io non ti verrò dietro di gualoppo,

ma batterò sovra la pece l’ali.
Lascisi ‘l collo, e sia la ripa scudo,
a veder se tu sol più di noi vali».


Cagnazzo è l’unico tra i demoni a fiutare l’inganno e cerca di allertare i suoi compagni. Ciampolo, però, è ancora più astuto e risponde con così tanta disinvoltura, facendo breccia sull’aggressività dei demoni e su come loro alla fine hanno pieno potere, che Alichino cede e accontenta il dannato.

Inizialmente, quindi, Cagnazzo mette in dubbio le parole di Ciampolo, ma quest’ultimo risponde (parafrasando a modo nostro): “Perché dovrei trovare un espediente? Voi siete demoni, sono io qui che sto rischiando e mettendo in pericolo altri sette come me. Cosa dovreste temere?
Alichino, rimanendo nella superficie di tale discorso, crede che Ciampolo stesso abbia ammesso la superiorità dei demoni sulle anime, ed è più intento a pensare a quanti ne scuoierà piuttosto che mettersi in dubbio, pensare che forse sta sbagliando qualcosa…

Ebbene, lo abbiamo scritto molto nei primissimi canti: l’Inferno altro non è che la nostra mente quando non abbiamo il comando su di essa. La mente, ormai lo sappiamo, agisce nel passato, in base alle esperienze che ha ricevuto. Succede a tutti: quando c’è qualcosa di nuovo, si va in crisi. Oppure, come in questo caso, non si vede una trappola messa in bella luce.

Questo, però, non è solo uno svantaggio. Possiamo infatti anche pensarla a nostro favore: perché limitarci nel fare qualcosa di nuovo solo perché non è mai stato fatto prima? Possiamo metterci in gioco con maggiore sicurezza se, dopo aver osservato attentamente da dove nasce una nostra falsa credenza, riusciamo a capire come poterla trasformare.

O tu che leggi, udirai nuovo ludo:
ciascun da l’altra costa li occhi volse,
quel prima, ch’a ciò fare era più crudo.

Lo Navarrese ben suo tempo colse;
fermò le piante a terra, e in un punto
saltò e dal proposto lor si sciolse.

Di che ciascun di colpa fu compunto,
ma quei più che cagion fu del difetto;
però si mosse e gridò: «Tu se’ giunto!».

Ma poco i valse: ché l’ali al sospetto
non potero avanzar; quelli andò sotto,
e quei drizzò volando suso il petto:

non altrimenti l’anitra di botto,
quando ‘l falcon s’appressa, giù s’attuffa,
ed ei ritorna sù crucciato e rotto.


Appena Ciampolo si rende conto che i diavoli gli hanno creduto, torna a essere timoroso di loro ma questo suo cambiamento lo spinge a mettere fine al piano: l’adrenalina, infatti, fa in modo che possa muoversi con tale rapidità da tornare nuovamente immerso nella pece senza ulteriori ferite.
A nulla serve il richiamo di Alichino: i demoni hanno così la conferma di essere stati ingannati.

Certo, Ciampolo non è sfuggito alla dannazione eterna, ma per la prima volta possiamo notare come anche all’Inferno un’anima può mantenere la sua astuzia. Questo, secondo voi, è giusto o sbagliato? Se volete sapere la nostra risposta, non vi resta che proseguire con la lettura.

Irato Calcabrina de la buffa,
volando dietro li tenne, invaghito
che quei campasse per aver la zuffa;

e come ‘l barattier fu disparito,
così volse li artigli al suo compagno,
e fu con lui sopra ‘l fosso ghermito.

Ma l’altro fu bene sparvier grifagno
ad artigliar ben lui, e amendue
cadder nel mezzo del bogliente stagno.

Lo caldo sghermitor sùbito fue;
ma però di levarsi era neente,
sì avieno inviscate l’ali sue.

Barbariccia, con li altri suoi dolente,
quattro ne fé volar da l’altra costa
con tutt’i raffi, e assai prestamente

di qua, di là discesero a la posta;
porser li uncini verso li ‘mpaniati,
ch’eran già cotti dentro da la crosta.

E noi lasciammo lor così ‘mpacciati.


La lotta dei diavoli si conclude con Calcabrina e Alichino che si scontrano tra loro e cadono nella pece bollente. A seguito di ciò, Barbariccia ordina agli altri diavoli di colpirli con gli uncini e proprio con questa scena, Dante e Virgilio proseguono il loro cammino.

È da un po’ che non parliamo delle due facce della stessa medaglia, ma per dare una risposta alla domanda che abbiamo posto in precedenza, bisogna farlo. Impulso e astuzia sono le due facce della stessa medaglia e, come al solito, non esiste un giusto e uno sbagliato: il tutto lo fa il motivo per cui si agisce in un determinato modo.

Pensiamo che se si utilizza l’astuzia per sottrarsi a una propria “pena”, non è così differente da utilizzare l’aggressività e l’impulso per infliggere dolore agli altri.
Questo non vuol dire autocommiserarsi, né infliggerci condanne senza senso. La pensiamo molto come George Harrison: non esistono errori, solo lezioni che non abbiamo ancora imparato.

Crediamo che le anime all’Inferno non posseggano ancora la consapevolezza di vedere nei peccati un motivo di crescita personale o spirituale, ecco perché veramente in pochi accettano la propria pena. C’è chi incolpa l’esterno per le proprie decisioni (ricordiamoci di Paolo e Francesca), chi ignora ciò che sta passando e chi – come in questo caso – cerca solo il modo per sottrarcisi il più possibile.

Vi ricordiamo anche che più si prosegue nel cammino spirituale, più si trovano i peccati peggiori e praticamente quotidiani. Non a caso il prossimo mese affronteremo il canto degli ipocriti.

Scagli la prima pietra chi non ha mai detto una bugia in vita sua!

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