lunedì 27 febbraio 2023

#Mitologia: Potere

Siamo consapevoli che la scelta tra il bene e il male sia sempre in atto, così come ci siamo resi conto che spesso tutto ciò che dobbiamo fare è cercare aiuto in qualcosa che non può essere tangibile ma che possiamo sempre trovare dentro ognuno di noi.

Negli articoli precedenti abbiamo parlato già di tutto ciò, così come abbiamo parlato ancora prima della forza che ci spinge a rialzarci e ad andare via dal nostro personale inferno.

Con tutte queste consapevolezze avute finora siamo finalmente divenuti l’essere perfetto, il guerriero senza macchia né paura di cui il mondo ha bisogno? Assolutamente no. Ora dobbiamo affrontare, forse, la sfida più grande di tutte: quella del potere.

Guardando nel nostro passato troviamo tutte le battaglie che abbiamo già affrontato e vinto, possiamo sentirci indomabili, eroi ed eroine che ora possono tutto, ma badiamo bene: l’arroganza e la superbia sono ancora dietro l’angolo. 

Essere umili

Chi ha letto tutti gli articoli è sicuramente una persona che sta facendo un cammino spirituale, un lavoro interiore di crescita personale. Probabilmente è cosciente che tutto ciò che ci circonda, a partire da noi, siamo formati da energia, e tende a mantenere alte le proprie vibrazioni per attirare solo il meglio dalla vita.
Se è così, si è anche sicuramente imbattuto in altre persone come lei/lui, per scoprire che non tutti hanno bene inteso come utilizzare certi poteri interiori.

Quando scaviamo in noi e troviamo i talenti e i carismi di cui siamo provvisti, è inevitabile immaginarli come le nostre armi interiori, le chiavi che possono aprire porte bloccate da tempo. Spesso, però, tutto ciò che vogliamo da queste porte sono nostri obiettivi personali.
Per carità, non c’è nulla di male in tutto ciò, ma ci siamo mai fermati a riflettere anche su quello che facciamo per gli altri? Se stiamo lasciando indietro qualcuno? Se abbiamo gli occhi puntati solo ed esclusivamente sul nostro obiettivo, ignorando tutto ciò che ci circonda?
La lotta tra bene e male è nulla paragonata a quello che dobbiamo affrontare ora, cioè le varie lezioni che ci metterà la vita su come gestire il nostro potere personale. Facciamo quindi spazio all’umiltà, o almeno al significato che questa parola dovrebbe avere.

Umile” deriva dal latino “humĭlis”, che vuol dire: “poco elevato da terra”.
Non dobbiamo pensare all’umiltà, quindi, come all’atto di non sognare in grande o di non sentirsi capaci in quello che sappiamo fare.
Per imparare a comprendere cosa sia davvero l’umiltà dobbiamo concentrarci sulle figure di quei personaggi di fiabe e leggende che hanno da sempre incarnato l’idea di monarca perfetto.
La persona umile è quel leader che si mette al livello di tutte le persone che ha attorno, il governante che viene dal popolo, il capo che mai ha dimenticato cosa voglia dire essere comandato.

Scommettiamo che in ambito leggendario e cavalleresco abbiamo tutti in mente un nome in particolare…

Re Artù e i cavalieri della tavola rotonda

Tutti noi conoscono a grandi linee la storia di Re Artù, quindi oggi cercheremo di spiegarla brevemente, solo per dare un esempio di cosa voglia dire gestire il proprio potere.
La storia di Artù è ricca di riferimenti alla Verità più grande, a partire dal nome del suo protagonista che deriva dal celtico (“artos”, “arth” o “art”) che vuol dire “orso”. Inoltre è possibile associare il Santo Graal al calderone ed entrambi i simboli appena citati sono spiegati più nel dettaglio nell’articolo dedicato ai misteri del femminile.

Tanto, tanto, tantissimo tempo fa in un regno lontanissimo viveva il re Pendragon. Possiamo già soffermarci sul nome, che al tempo era molto utilizzato per i monarchi celtici in quanto composto dalle due parole: “penn” che vuol dire “monte” e “dragon” che significa “drago”; il significato, dunque, letteralmente può essere “testa di drago” a simboleggiare il carattere forte e coraggioso di chi lo porta.
Potete dare una lettura veloce all’articolo “Il principe azzurro” per soffermarvi su altri simbolismi.
Al re nacque un figlio illegittimo – Artù, appunto – che proprio non poteva divenire l’erede al trono, quindi su consiglio del saggio mago Merlino (che fisicamente e caratterialmente riprende i tratti del vecchio saggio Odino) viene fatto crescere tra il popolo e in segreto.
Il bambino divenne poi lo scudiero del fratellastro Sir Kay – in alcune versioni è proprio lui ad aver adottato Artù – e da subito sviluppa un carattere buono, generoso e ricco di valori morali.
Alla morte del re, però, iniziò una disputa tra chi sia il degno erede e Merlino decise così di conficcare la spada Excalibur su una roccia, dichiarando che solo chi riuscirà a estrarla potrà considerarsi degno erede al trono.
Il piccolo Artù riuscì nell’impresa e Merlino fu così costretto a svelargli la verità sulle sue origini, divenendo suo precettore. Di tutto questo, però, parleremo meglio in un articolo della prossima settimana.
Grazie alla forza di Artù e agli insegnamenti di Merlino, il ragazzo crebbe e, battaglia dopo battaglia, riuscì a riunificare il Regno e a mantenere la pace.

Artù rappresenta, quindi, l’umiltà di cui parlavamo prima: un ragazzo cresciuto in un ambiente lontano dal suo destino, che improvvisamente è consapevole di quello che lo aspetta e cambia le carte in tavola personificando un re che non è solo virile e forte, ma anche dotato di buon senso.
Mettendosi in contatto con la parte spirituale riesce a riunificare nella sua realtà ciò che prima era diviso e a portare la pace e la prosperità attorno a lui.
Divenuto re si riunisce con i suoi cavalieri attorno alla tavola rotonda, scelta di quella forma per sancire un accordo di uguaglianza tra tutti i membri.
A sancire la sua vittoria, si sposa con l’amata Ginevra, ma il periodo prospero dura poco…

Sacrificio

Dopo qualche anno Ginevra si innamora di Lancilotto, cavaliere della tavola rotonda e migliore amico del marito. Nel frattempo Excalibur viene perduta e il regno è alle prese con la carestia e la pestilenza.
Artù ha perso tutto quello che poteva dargli valore e potere, il suo popolo muore di fame e di peste e quando anche lui si ammala gravemente, rimane sospeso come in un limbo. Lì capisce che l’unico modo che ha per sistemare tutto è ritrovare il Graal: il contenitore dove è stato raccolto il sangue di Cristo morente sulla croce.
Tale ricerca dura forse un decennio, ma nessun cavaliere riesce a far ritorno perché uccisi dalla strega Morgana e dal figlio Mordred.
Sarà il cavaliere Parsifal a trovare il Graal e a rispondere al suo enigma, ma Artù morirà lo stesso ed Excalibur sarà riconsegnata alla Dama del Lago che la custodisce tuttora, in attesa nasca un re degno.

Ovviamente la storia è molto più complessa di questi pochi paragrafi, ma il senso è molto diretto: avere potere non significa essere esente dal male, anzi. Per essere degni del bene bisogna essere disposti a dare una parte di noi e non chiudere gli occhi su quanto accade a chi abbiamo attorno solo perché non ci tocca.
Abbiamo sempre parlato del sacrificio come di un rendere sacro, ma arrivati a questo punto lo dobbiamo intendere proprio come un lasciare andare una parte di noi.
Ritroviamo questo significato anche nel mito di Tyr.

Tyr e Fenrir.

Premessa: il dio Tyr è considerato al pari delle divinità classiche Zeus e Giove.

Fenrir, figlio di Loki e di una Gigantessa, era un lupo mostruoso e feroce che viveva terrorizzando tutti gli Asi. L’unico in grado di poterlo avvicinare era il dio Tyr, il quale era anche incaricato di dargli cibo per renderlo mansueto.
Gli altri dèi hanno cercato per più volte di imprigionarlo, ma Fenrir riusciva sempre a liberarsi senza problemi da ogni catena finché Odino decise di incaricare gli gnomi affinché creassero un laccio magico. Venne creato quindi Gleipnir: una corda dall’apparenza sottile ma che avrebbe di certo tenuto a bada il crudele lupo.
Fenrir acconsentì per indossarlo a una sola condizione: che qualcuno gli mettesse una mano nelle sue fauci a mo’ di atto di pegno. Nessuno degli dèi, però, si fidava del lupo, eccetto Tyr che acconsentì senza pensarci su.
Quando il lupo fu avvinghiato e quindi capì che non poteva mai più liberarsi dal laccio, morse e staccò la mano a Tyr che da quel momento è conosciuto anche con l’appellativo di: “dio da una mano sola”.
Il lupo si libererà solamente durante il Ragnarök, per poi divorare Odino. Vidar, per vendicare il padre, ucciderà definitivamente Fenrir.

Siamo tutti Uno

Legge dell’attrazione, modi per cambiare la propria realtà, vari rituali celebrativi… sappiamo che va tutto bene, ma qual è la nostra vera intenzione nei riguardi dell’umanità?
Quando ci sentiamo pronti all’azione, agiamo solo per tornaconto personale, o possiamo considerarci a tutti gli effetti un Tyr o Artù, pronti a sacrificare la nostra volontà per un bene superiore?

Certo, si potrebbe ben pensare che sono stati fatti esempi che parlano di guerre e che quindi forse non hanno tutto questo credito, ma bisogna considerare che sono miti e leggende antichissimi, che poco hanno a che vedere con la mente di adesso. La matrice, però, può essere simile, andiamo a vedere perché…

Per le popolazioni nordiche la guerra non era considerata come adesso, era vista più come una contesa tra due parti dove vinceva quella che meritava di più a seconda delle leggi del Wyrd: le azioni del passato determinano la vittoria o la sconfitta di un popolo.
A decidere la sorte era proprio Tyr, che viene così definito il dio della guerra non nel senso sanguinario, ma più come un legislatore, un dio di giustizia.
Non è un mistero che spesso i tribunali antichi prendessero decisioni in base alla volontà popolare; anche nei Vangeli vediamo un Ponzio Pilato che fa decidere alla gente comune chi vuole sia libero tra Barabba e Gesù. Da questo punto di vista, quindi, dovremmo essere pronti ad ammettere che tutto ciò compiamo in questo momento determinerà le sorti della nostra vittoria o sconfitta futura.

Avere degli obiettivi è lecito e non vogliamo lanciare il messaggio che siano giusti solo quelli rivolti al bene comune. Vogliamo solo puntare la luce sul fatto che più si ha potere, più lo si dovrebbe mettere al servizio del prossimo proprio perché gli altri siamo noi.

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