sabato 28 maggio 2022

#DivinaCommedia: Canto XIII

Siamo di nuovo a un altro appuntamento con la Divina Commedia! Oggi affrontiamo quella parte di noi che c'è, è sempre presente ma più fatichiamo a vedere. La crediamo nascosta, e in un certo senso ci illudiamo non esista. 

Aiutati da Nesso, Dante e Virgilio arrivano sull’altra sponda del fiume. Oggi affrontiamo il tredicesimo canto, quello dedicato ai suicidi e agli scialacquatori. Cerchiamo di fare attenzione sul perché un peccato viene condannato. Ovviamente ne parliamo più nel suo significato esoterico, che quello letterale o allegorico. 

 

Non era ancor di là Nesso arrivato,
quando noi ci mettemmo per un bosco
che da neun sentiero era segnato.

Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e ‘nvolti;
non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco.

Non han sì aspri sterpi né sì folti
quelle fiere selvagge che ‘n odio hanno
tra Cecina e Corneto i luoghi cólti.

Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
che cacciar de le Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno.

Ali hanno late, e colli e visi umani,
pié con artigli, e pennuto ‘l gran ventre;
fanno lamenti in su li alberi strani.

Nesso porta Dante e Virgilio al di là del fiume, e ciò che nota il Poeta è un bosco praticamente morto, non di colore verde, ma totalmente scuro, senza nessun sentiero. Lo possiamo immaginare quindi in rovina, abbandonato, tanto che i rami non sono dritti, ma curvi e privi di frutti. Il tutto è così morente, che nessun animale sembra viverci, neanche quelli più pericolosi che - almeno nella teoria – sono famosi per essere impavidi.

Le uniche creature a essere presenti, sono le Arpie. Nella mitologia classica, sono figlie del dio marino Taumante e della ninfea Elettra. Il loro petto è di donna, ma con corpo pennuto e artigli, e così sono anche descritte nell’Inferno dantesco.

Virgilio ricorda a Dante che le Arpie sono le stesse che avevano rovinato il banchetto di Enea e i suoi compagni, cospargendo con dello sterco il cibo appena cucinato. Immaginiamo che mentre Virgilio ricorda ciò, Dante le stia osservando, notando come siano la causa dei forti lamenti che sente.

E ‘l buon maestro «Prima che più entre,
sappi che se’ nel secondo girone»,
mi cominciò a dire, «e sarai mentre

che tu verrai ne l’orribil sabbione.
Però riguarda ben; sì vederai
cose che torrien fede al mio sermone».

Virgilio annuncia a Dante che si trova nel secondo girone, e ci rimarrà finché non passerà anche l’enorme spiaggia dei violenti contro Dio, – dove piovono fiamme  – ecco perché deve prestare molta attenzione ora. Così dobbiamo prestarla noi, perché Dante qui vuole dirci di non proseguire con i canti, finché non si è appreso pienamente quello appena letto. Ecco perché facciamo passare un mese tra un articolo e l’altro di questa etichetta.

Ricordiamo il senso della lettura in chiave esoterica della Divina Commedia: Dante è tutti i personaggi che incontra, così come noi siamo Dante e tutti i personaggi che si presentano. Nei canti precedenti abbiamo imparato a riconoscere quando commettiamo violenza contro gli altri, ora dobbiamo capire quando la commettiamo contro noi stessi, poi incontreremo chi ci farà comprendere come la commettiamo nei confronti del Divino.

Da buon “regista”, come lo chiameremmo noi adesso, Dante accresce la nostra curiosità, rendendoci impazienti di sapere cosa scopriremo.

Io sentia d’ogne parte trarre guai
e non vedea persona che ‘l facesse;
per ch’io tutto smarrito m’arrestai.

Cred’ïo ch’ei credette ch’io credesse
che tante voci uscisser, tra quei bronchi,
da gente che per noi si nascondesse.

Dante continua a sentire lamenti, e si ferma in attesa, molto probabilmente scrutando bene il bosco secco, per cercare di notare qualche anima nascosta. Ci ritroviamo nella selva dei suicidi, così chiamata anche dopo. Notiamo come torna la parola “selva”. Nel primo canto abbiamo già spiegato che l’immagine del bosco è quella del nostro inconscio. L’unico modo che abbiamo per conoscerlo, è affrontarlo, anche se è terribile e ci fa paura.

Un bosco del genere, però, è più difficile da guardare, perché sembra completamente deserto, tanto che crediamo nasconda qualcosa. Che ci piaccia ammetterlo o no, i pensieri suicidi sono in ognuno di noi, ma mai nascosti. Piuttosto trasformati in altro. I pensieri suicidi, infatti, non sono sempre quelli che ci spingono a farci del male fisico o portarci alla morte, ma sono anche quelli che sminuiscono la nostra voglia di vivere. Accettare una relazione per abitudine, un lavoro che odiamo solo per una sicurezza economica, seguire strade imposte da altri… Ci suicidiamo quotidianamente, ogni giorno in cui non viviamo come vorremmo.

Però disse ‘l maestro: «Se tu tronchi
qualche fraschetta d’una d’este piante,
li pensier c’hai si faran tutti monchi».

Allor porsi la mano un poco avante
e colsi un ramicel da un gran pruno;
e ‘l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?».

Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: «Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?

Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb’esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi».

Virgilio, osservando la perplessità di Dante, gli fa notare che se spezzasse qualche tronco, capirebbe quanto si stia sbagliando: non c’è nulla che si nasconde. E infatti, proprio come successo a Enea, rompe un ramoscello, il quale comincia a gridare di dolore. Esce del sangue scuro, e ora ci accorgiamo che quelle piante altro non sono che anime. Oltre a una sensibilizzazione verso il mondo vegetale – già all’epoca si notava quanto l’uomo portasse più rispetto verso gli animali pericolosi, piuttosto che verso una pianta – notiamo una cosa interessante: chi si suicida è un vegetale. Perché? Premettendo che per noi tutto ha un’anima, e ogni essere vivente va rispettato, all’epoca si pensava che le piante non avessero alcuna capacità razionale. Così chi rinuncia alla natura umana, è punito nel non averla del tutto.

Come d’un stizzo verde ch’arso sia
da l’un de’ capi, che da l’altro geme
e cigola per vento che va via,

sì de la scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue; ond’io lasciai la cima
cadere, e stetti come l’uom che teme.

Dante è ovviamente sconvolto dal fatto che un ramo perda sangue, soffra e parli. Non c’è molto altro da dire, ma noi vogliamo continuare a farvi notare un fatto: all’Inferno i suicidi hanno la parola e soffrono. Perché? Ovviamente la sofferenza è parte dell’Inferno, quindi qui la risposta è abbastanza ovvia. Ma come mai c’è la parola? Secondo noi per un semplice fattore di perdono.

Le pene, le condanne, vengono date dopo un processo, in cui chiunque ha il diritto di difendersi. Quando le anime giungono all’Inferno, però, non hanno questa possibilità, perché Dio già sa tutto. Ma il Dio cristiano non è un esecutore, al contrario. Ama i peccatori, allora perché non dà modo di perdonare?

La genialità di Dante sta nel fatto che ha composto la Divina Commedia in modo tale da non poter essere perseguitato dal tribunale ecclesiastico del tempo; Dio manda all’Inferno, e così lui descrive. Eppure, se leggiamo in chiave esoterica, vediamo che ogni peccatore ha il suo momento per confidarsi, per chiedere perdono e per farci capire come e quando pecchiamo, cioè manchiamo il bersaglio.

«S’elli avesse potuto cader prima»,
rispuose ‘l savio mio, «anima lesa,
ciò c’ha venduto pur con la mia rima,

non avrebbe in te la man distessa;
ma la cosa incredibile mi fece
indurlo ad ovra ch’a me stesso pesa.

Se Dante avesse saputo di recare danno, rompendo il ramo, ovviamente non l’avrebbe mai fatto. Ma visto che l’unico modo per far parlare le anime è questo, il gesto in realtà è un atto di amore e di compassione. In un certo senso, succede anche con i nostri pensieri e lati più oscuri: l’unico modo che abbiamo per conoscerli, è accogliergli del tutto, e questo fa male. Virgilio, poi, cerca di tranquillizzare l’anima, portandola anche a parlare con Dante, almeno presentandosi.

Ma dilli chi tu fosti, sì che ‘n vece
d’alcun’ammenda tua fama rinfreschi
nel mondo sù, dove tornar li lece».

E ‘l tronco: «Sì, col dolce dir m’adeschi,
ch’i’ non posso tacere; e voi non gravi
perch’ïo un poco a ragionar m’inveschi.

Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
seranndo e diserrando, sì soavi,

che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi;
fede portai al glorïoso offizio,
tanto ch’i’ ne perde’ li sonno e’ polsi.

L’anima si presenta e sappiamo che sta parlando Pier della Vigna (Capua 1190-1249) Pier, di umili origini, divenne funzionario e segretario di Federico II (1194-1250), imperatore del Sacro Romano Impero. Pier della Vigna era molto vicino all’Imperatore, così tanto da tenere le due chiavi: sia quella di pubblica – difatti era tanta la fiducia che Federico II riponeva su di lui, da dargli anche incarichi diplomatici in Francia e Inghilterra – sia quella privata, essendo suo amico fidato.

Per della Vigna, il suo lavoro era così importante da avergli tolto il sonno e la vita. nel 1249, infatti, fu sospettato di tradimento. Federico II lo imprigionò a Pisa, ma per vergogna o timore di un’accusa per lui infondata – gli storici in realtà non hanno trovato un comune accordo – si suicidò.

La meretrice che mai da l’ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio,

infiammò contra me li animi tutti;
e li ‘nfiammati infiammar sì Augusto,
che ’ lieti onor tornaro in tristi lutti.

La meretrice, in questo caso, è l’invidia. Sono state le chiacchiere degli invidiosi a spingere per la condanna di Pier della Vigna. Probabilmente per il rapporto troppo intimo con “Cesare”, il sovrano.

L’animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.

Per le nove radici d’esto legno
vi giuro che già mai non ruppi fede
al mio segnor, che fu d’onor sì degno.

E se di voi alcun nel mondo riede,
conforti la memoria mia, che giace
ancor del colpo che ‘nvidia le diede».

Ora, come abbiamo scritto più volte, l’errore non è un atto grave e imperdonabile. Pier della Vigna, infatti, non è all’Inferno perché si è suicidato, ma per il motivo che lo ha spinto a togliersi la vita. Lui pensava che se fosse morto, avrebbe riscattato la sua persona, rendendosi superiore rispetto a chi lo accusava. Non ha peccato contro la volontà di Dio, che dà la vita, ma ha peccato di superbia e anche vendetta.

Ecco che l’errore diventa un “non vedere”, perché convinto così di riscattarsi. Ma il suo nome – nel periodo di Dante – era ancora associato a quello di un traditore, e la pena - sia fisica che emotiva – non lo ha mai abbandonato. Ma grazie alla parola data, Dante lo riscatta. Per il Poeta, infatti, Pier della Vigna è innocente e lo mette per iscritto, facendolo giurare anche all’Inferno che mai ha mancato la fiducia di Federico II.

Un poco attese, e poi «Da ch’el si tace»,
disse ‘l poeta a me, «non perder l’ora;
ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace».

Ond’ïo a lui: «Domandal tu ancora
di quel che credi ch’a me satisfaccia;
ch’i non potrei, tanta pietà m’accora».

Dante è così angosciato dal racconto e da ciò che vede – quindi un arbusto secco che parla e soffre – che dice a Virgilio, il nostro maestro, la parte più “coraggiosa” di noi, se così possiamo definirla, di domandare a Pier della Vigna in cosa consiste la pena.

Perciò ricominciò: «Se l’om ti faccia
liberamente ciò che ‘l tuo dir priega,
spirito incarcerato, ancor ti piaccia

di dirne come l’anima si lega
in questi nocchi; e dinne, se tu puoi,
s’alcuna mai di tai membra si spiega».

Allor soffiò il tronco forte, e poi
si convertì quel vento in cotal voce:
«Brievemente sarà risposto a voi.

Per ogni anima, spiegare la propria pena è atroce, tanto che l’anima deve prima “soffiare forte”, per poi trasformare l’aria che viene in parola. Come se avesse tirato un profondo sospiro. Poi vuole parlarne brevemente, come se il tempo speso a raccontare, facesse un male fisico.

Quando si parte l’anima feroce
dal corpo ond’ella stessa s’è disvelta,
Minòs la mandaa a la settima foce.

Cade in la selva, e non l’è parte scelta;
ma là dove fortuna la balestra,
quivi germoglia come gran di spelta.

Surge in vermena e in pianta silvestra:
l’Arpie, pascendo poi de le sue foglie,
fanno dolore, e al dolor fenestra.

Come l’altre verrem per nostre spoglie ,
ma non però ch’alcuna sen rivesta,
ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie.

Qui le strascineremo, e per la mesta
selva saranno i nostri corpi appesi,
ciascuno al prun de l’ombra sua molesta».

Dato che in vita hanno abusato della libertà data da Dio, fino ad arrivare a decidere della propria morte, sono condannati a essere “piantati” in modo casuale in punto. Lì mettono radici, crescono, e sono cibo delle Arpie, che con il loro sudiciume li graffiano, mangiano, pezzo dopo pezzo. È per questo che Dante ha sentito dei lamenti. Quando poi arriverà il Giudizio Universale, le loro spoglie, totalmente prive di vita, verranno trascinate e appese ai rami di quegli stessi alberi. Pier accetta la sua condizione, non la nega, né la bestemmia. Questo dà prova di come Dante sia stato dalla sua parte.

Noi eravamo ancora al tronco attesi,
credendo ch’altro ne volesse dire,
quando noi fummo d’un romor sorpresi,

similemente a colui che venire
sente ‘l porco e la caccia a la sua posta,
ch’ode le bestie, e le frasche stormire.

Ed ecco due da la sinistra costa,
nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
che de la selva rompieno ogne rosta.


La prima parte del canto finisce con il discorso di Pier della Vigna, concluso da un improvviso rumore. Dante e Virgilio stanno ancora nella selva dei suicidi, quando vedono due anime correre a petto nudo, con ferite laceranti, Scappano da qualcosa, così disperati da rompere ogni fronda nel loro cammino. Sappiamo essere gli scialacquatori, puniti più severamente rispetto ai prodighi. Perché? Beh, perché i secondi sono più vittime delle circostanze, mentre i primi hanno peccato con molta più crudeltà.

Quel dinanzi: «Or accorri, accorri, morte!».
E l’altro, cui pareva tardar troppo,
gridava: «Lano, sì non furo accorte

le gambe tue a le giostre del Toppo!»
E poi che forse li fallia la lena,
di sé e d’un cespuglio fece un groppo.

Di rietro a loro era la selva piena
di nere cagne, bramose e correnti
come veltri ch’uscisser di catena.

In quel che s’appiattò miser li denti,
e quel dilaceraro a brano a brano;
poi sen portar quelle membra dolenti.

Un personaggio invoca la morte, sa già che la bestia da cui scappa lo prenderà, staccandogli pezzo per pezzo, per questo vuole morire del tutto, mettendo la parola fine anche alla sua anima. Il primo nome che troviamo è Lano. Lano era un giovane ragazzo senese, ricchissimo di famiglia che però disperse l’intero patrimonio, divenendo poverissimo. Non lo disperse in scelte sbagliate, o azzardate, né per vizi. Si unì con degli amici, in quella che avevano chiamato: “la brigata spendereccia”. Quindi liquidò i beni per il puro gusto di farlo, senza un reale motivo.

Ma perché questo è al pari di un suicidio? Dante segue l’Etica di Aristotele, secondo la quale: “La dilapidazione delle proprie sostanze sembra essere una certa rovina di se stessi, in quanto le sostanze sarebbero la base del vivere”.

Premesi allor la mia scorta per mano,
e menommi al cespuglio che piangea
per le rotture sanguinenti in vano.

«O Iacopo», dicea, «da Santo Andrea,
che t’è giovato di me fare schermo?
che colpa ho io de la tua vita rea?».

Dante e Virgilio vanno verso l’arbusto dove le anime tentavano di nascondersi e scappare via. Le cagne che li rincorrevano possono essere un’allegoria dei creditori o della povertà che stava a un passo da loro in vita. Quando i due si avvicinano, sentono il lamento del cespuglio, che fa il secondo nome del fuggitivo: Giacomo (o Jacopo) da Santo Andrea, anche lui in vita scialacquava i suoi beni. Si dice che una volta abbia buttato in mare una sacca piena di monete d’oro. Se in vita dilaniavano ciò che avevano, ora vengono dilaniati per l’eternità. È facile pensare, infatti, che una volta smembrati del tutto, si ricompongano, per ricominciare a fuggire, come animali.

Quando ‘l maestro fu sovr’esso fermo,
disse: «Chi fosti, che per tante punte
soffi con sangue doloroso sermo?».

Ed elli a noi: «O anime che giunte
siete a veder lo strazio disonesto
c’ha le mie fronde sì da me disgiunte,

raccoglietele al piè del tristo cesto.
I’ fui de la città che nel Batista
mutò ‘l primo padrone; ond’ei per questo

sempre con l’arte sua la farà trista;
e se non fosse che ‘n sul passo d’Arno
rimane ancor di lui alcuna vista,

que’ cittadin che poi la rifondano
sovra ‘l cener che d’Attila rimase,
avrebber fatto lavorare indarno.

Io fei gibetto a me de le mie case».

Virgilio chiede al cespuglio chi sia, ma lui racconta solo di essere un fiorentino che si è tolto la vita a casa sua. Non c’è il nome, né i commentatori ne hanno mai fatto uno. Per Boccaccio e Benvenuto, Dante avrebbe volutamente lasciato l’anonimato per condannare qualsiasi violento di Firenze.

Come al solito, abbiamo cercato di omettere le parti più conosciute, mostrando quelle che spesso rimangono nell’ombra. Dante, anche qui, fa notare quanto sia importante il motivo per cui si fa qualcosa, cosa ci spinge ad agire. Se compiamo azioni con amore e compassione, infatti, anche i peccati più gravi ci vengono perdonati, ma questo lo vedremo soprattutto quando affronteremo i canti del Purgatorio e del Paradiso.

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