lunedì 6 febbraio 2023

#Racconti: In viaggio

Come già successo per “Il giro infinito di un turista” e “Cinque minuti”, l’Atac torna a farci da ispirazione, questa volta aiutata dal mondo onirico dell’autrice del racconto.

Prendere i mezzi a Roma può essere anche considerata un’esperienza mistica, un viaggio interiore, perché no? 

L’ansia non la faceva dormire da qualche settimana, confinandola a letto nelle ore diurne mentre quelle notturne erano una lotta continua con i suoi pensieri ossessivi che le urlavano quanto il futuro stesse attendendo la sua arresa.
Erano rimaste poche centinaia di Euro nel suo conto che sommati all’aiuto che le mandavano i genitori dal paese, a quelli che teneva nascosti nei cassetti di casa, sarebbero bastati forse per altri due mesi.
Amava, però, tutto della sua vita, soprattutto quei genitori così lontani ma che la tecnologia riusciva a tenere vicini durante i pasti, condivisi in videochiamata su Whatsapp.
Serena, di nome ma non di fatto negli ultimi mesi, aveva una fottuta paura di deludere i due che l’avevano messa al mondo quasi trentasette anni fa: da sempre suoi sostenitori, temeva di non realizzare i suoi sogni e disilludere così le speranze che i due anziani solo nel fisico condividevano nei confronti dell’unica figlia, scappata a Roma per iniziare un’attività in proprio come sarta.
Un sogno che prima di lei apparteneva a sua nonna e che aspettava di essere espresso nell’albero genealogico della sua famiglia da diverse generazioni. La povertà, due guerre mondiali, il ruolo di donna confinato all’essere madre, avevano sempre fatto in modo che il negozio di sartoria rimanesse nei pensieri, nei sogni e nei giochi relegati all’infanzia.
Quando Serena prese coraggio, però, un virus mise in ginocchio l’intero mondo e lei si era ritrovata sola in una città sconosciuta, con vicini fantasmi di cui conosceva solo la voce quando, puntuali come gli stridii dei gabbiani al tramonto, stonavano canzoni dai balconi.
A pandemia finita, con qualche chilo in più e una stanchezza mentale che la sfiniva già a metà giornata, Serena sembrava comunque volenterosa a riprendere in mano la sua vita. Ma le attività  già avviate chiudevano e quelle nuove chiedevano troppo per ingranare. I social, poi, sembravano non aiutarla nel far andare la propria attività, così, dopo due anni di pane e preghiere, Serena dovette accettare un colloquio di lavoro presso un negozio che l’avrebbe sfruttata.

Il cuore era pesante alla fermata del 277, l’angoscia attanagliava il suo volto peggio del freddo pungente che lei, donna di montagna, sapeva avrebbe portato presto la neve in una città poco abituata al gelo.
Sperava che l’autobus non si facesse vedere, sperava di mandare un messaggio: “Scusatemi, oggi il 277 non è passato, sapete com’è…” e invece, eccolo a pochi metri da lei, materializzato proprio come narra la leggenda che accompagna il suo nome: nessuno sa se e quando passerà, né da dove parta o dove arrivi; il 277 appare improvvisamente, accogliendoci e portando risposte alle nostre domande mai poste.
Serena si mise comoda al posto di mezzo, quello più vicino alla porta. Il 277 era già pieno, ma non di studenti come avrebbe potuto far pensare l’orario mattutino. Erano tutti della sua stessa età, più o meno. Con la musica nelle cuffie, ignorò le notifiche del telefono per concentrarsi meglio sul percorso da prendere una volta arrivata alla metro. Quale autobus le conveniva? Elisabetta, sua nuova coinquilina, le aveva consigliato il 333 o il 34, e gli orari del traffico di Google Maps le avevano fatto optare per il secondo. Erano solo quattro le fermate da casa sua alla prima metro disponibile, ma quando Serena alzò lo sguardo dallo smartphone per vedere dove si trovasse, rimase a dir poco di stucco.

«Non è possibile.» Credette di pensare, invece parlò ad alta voce.
«Cosa non è possibile?» Le chiese un ragazzo poco distante.
«Io… io… devo scendere!» Serena premette forte il pulsante di chiamata della fermata, inutilmente: non sentì né il suono, né vide lo schermo illuminarsi. Non che fosse strano, a Roma era normale, ma a quanto pareva l’autobus proseguiva tranquillo tra le vie del suo paese d’origine.
«Devo scendere! Devo prendere la metro!» Urlò verso l’autista che, impassibile, continuava la sua corsa tutta curve e vicoli stretti.
«Questo autobus non si ferma mai.» Il ragazzo le andò accanto, con un sorriso che voleva rassicurarla, ma che a lei nel momento sembrava solo una presa in giro non richiesta.
«Non è possibile! Gli autobus si fermano.» Si passò la mano sugli occhi, non era davvero quello il problema più grande: com’era possibile che nel tempo in cui è stata su Google Maps, quaranta, cinquanta secondi massimo, lei si sia ritrovata in Umbria? Che stesse vivendo un’avventura da 277? Quelle vie le conosceva, eppure non sapeva dare i nomi ai volti che incontrava, come se ci fosse stato un ricambio generazionale negli ultimi anni in cui lei ha vissuto a Roma. Eppure, quando tornava a casa per le feste, non aveva notato chissà quanti cambiamenti.
Sapendo alcune delle storie più utopistiche su quella linea, decise che tanto valeva arrendersi alla situazione e vedere dove sarebbe andata.

«Brava, è così che si fa.»
«Cosa?»
«Arrendersi, vedere come va a finire.»
Serena guardò il ragazzo sorpresa, forse con terrore, che stesse leggendo i suoi pensieri?
«No, tranquilla, non leggo i tuoi pensieri.» Sorrise lui imbarazzato. «Studio il linguaggio del corpo, so cosa pensi da questo. Dove devi andare?»
«A Termini.»
«E ci saresti andata con un autobus?»
«Sicuro che non mi leggi nel pensiero?»
«Stai ancora su Google Maps.»
Serena arrossì, poi bloccò lo schermo e tornò a guardare il ragazzo, che ora era diventato una ragazza. «Preferisco viaggiare in autobus.»
«Capisco. Ti piace il panorama, giusto?»
Serena annuì.
«Vedi, a volte, quando le cose non vanno, è inutile concentrarci sul panorama, su quello che vediamo. Dobbiamo scavare dentro, vedere dov’è l’origine del nostro male, per poter cambiare le cose. È questo il senso della metro: un treno che viaggia sottoterra e che ogni tanto riaffiora.»
Serena distolse lo sguardo dalla ragazza, al solito aveva dato confidenza a chi non stava bene con il cervello. Voleva solo essere lasciata in pace.     
Ciò che le era stato detto, però, aveva attecchito al suo interno. “È questo il senso della metro: un treno che viaggia sottoterra e che ogni tanto riaffiora.” Lo ripeté qualche minuto, finché non divenne una meditazione costante per il terzo giro consecutivo del paese.

D’un tratto il suo sguardo fu catturato dalla casa dei suoi nonni, e inspiegabilmente volle condividere il tutto con quella sconosciuta.
«Quella era casa dei miei nonni.»
«Ah sì? Quindi quella affacciata alla finestra è tua nonna?»
«No, lei è…» “morta da tempo”, avrebbe voluto risponderle, invece notò che alla finestra c’era proprio sua nonna.
«Devo scendere!» Si alzò di scatto, andando di tutta fretta dall’autista. «C’è mia nonna, non la vedo da anni, da che ero bambina, la prego, mi faccia scendere!»
Ma l’autista, imperterrito e rispettoso del cartello “non parlare al conducente” sembrava non ascoltarla.
«Basta! Calmati!» Le urlò un signore dall’altra parte del mezzo. «Non puoi andare indietro, qui si va solo avanti.»
«Già,» annuì una signora lì accanto. «è inutile che rimugini sul tuo passato…»
«Su quello che è stato, e quello che è andato.» concluse un’altra ragazza mentre era intenta a leggere un libro.
«Non puoi neanche prendere decisioni in base a quello che ti dicono gli altri, mia cara.» disse un bambino con tutta la sua sincera ingenuità.
Serena osservava ogni passeggero lì presente, alcuni stavano in piedi impassibili, da chissà quanto tempo.
«Tutti andiamo sempre avanti. Anch’io vorrei tornare indietro, sai? Ma non si può. Oh, se avessi ancora i miei venti, trenta, anche quarant’anni. Ne ho ottantacinque, sai? Non si torna indietro.»

«Ecco la sua fermata, signorina.» Il conducente la guardò sorridendole paternamente.
Serena, silenziosa per la sconvolgente avventura, scese dal 277 e si ritrovò a Laurentina.

Il mondo attorno a sé ignorava la sua nuova consapevolezza.

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