venerdì 27 gennaio 2023

#Mitologia: Relazione con Dio

Con il nostro viaggio abbiamo compreso che dal dolore si può rinascere e che nella vita c’è molto di più di ciò che vediamo. Questo ci porta alla fatidica domanda, posta da ognuno di noi almeno una volta nella vita: “Come arrivare a quel qualcos’altro?

Non importa a cosa crediate, in un certo senso non importa neanche se crediate, perché persino l’ateo più convinto si è ritrovato, inconsciamente o no, a chiedersi cosa fare in un determinato momento, a cercare consigli e aiuto e molto probabilmente a codificare i segni dell’Universo.

Ogni volta, infatti, che si prega un dio, ci si sta connettendo direttamente con l’inconscio collettivo e non c’è poi nulla di così mistico. Il termine “inconscio collettivo” è stato coniato da Carl Gustav Jung a indicare un “contenitore” all’interno della psiche universale dove sono raccolti tutti gli archetipi, le forme e i simboli comuni non sono alle società odierne, ma anche a tutte quelle passate e future.

Cercheremo di spiegarci meglio nel corso dell’articolo.
“Tutto ciò che ho appreso nella vita mi ha portato passo per passo alla convinzione incrollabile dell’esistenza di Dio. Io credo soltanto in ciò che so per esperienza. Questo mette fuori campo la fede. Dunque io non credo all’esistenza di Dio per fede: io ‘so’ che Dio esiste.”

Questa celebre frase di Jung è tratta dall’intervista della BBC con John Freeman, ma noi non stiamo scrivendo questo articolo per convertire le persone, anche perché non è nostro compito farlo.
Quello che ci preme analizzare non è tanto “chi è” o se esiste Dio, quanto capire perché fin dall’alba dei tempi gli esseri umani hanno sentito la necessità di affidarsi a una fonte divina.

Ogni Sacra Scrittura lo ripete più e più volte: è Dio stesso a volere una relazione con noi. Ma come si fa ad avere tale relazione?
Vi sarà di certo capitato di osservare la “Creazione di Adamo”, l’affresco di Michelangelo presente alla Cappella Sistina. Ma è davvero Dio a creare Adamo?
Osserviamo meglio l’immagine: Dio è raffigurato come un uomo sorretto dai suoi angeli. Ciò che risalta agli occhi, soprattutto se si ha la fortuna di averlo visto dal vivo, è quanto la parte con Dio presente somigli al cervello umano. Le persone più materiali ora possono pensare: “E infatti è l’uomo ad aver creato Dio”, ma ancora, ne siamo davvero sicuri?
Osserviamo ancora più da vicino, soffermandoci sulle dita. L’indice di Dio è teso verso l’uomo, non così tanto, però, da sembrare un comando. La creazione, quindi, non ci appare come un qualcosa di dovuto da parte del Dio, quanto una voglia di conoscerci (o conoscersi?). D’altro canto, il dito di Adamo va verso il basso, sembra scocciato, arreso, come se non volesse affatto che Dio lo (o si?) possa conoscere. Eppure la distanza tra i due è veramente minima. Per toccarsi, basterebbe che Dio si avvicinasse un po’ di più, all’uomo basterebbe tendere il dito.

Confusi?
Nei momenti più bui sentiamo la spinta verso qualcosa, così come quando non sappiamo cosa fare sentiamo il bisogno di rimanere soli a contemplare la situazione. Cerchiamo risposte in quella che è la nostra mente (che spesso ci mente, appunto) o rimanendo in contatto con la natura.
Va bene credere, come va bene non credere, ma siamo davvero sicuri che una cosa debba per forza escludere l’altra?
Perché ci ostiniamo a fare gli Adamo e non tendere quel dito verso la forza che ci chiama a sé?
Stare in relazione significa accettare che la nostra verità non è l’unica e assoluta. Mettersi in relazione con qualcuno, lo vediamo anche nel materiale, vuol dire accettare il fatto che quel qualcuno può pensarla in maniera differente da noi e potrebbe anche dirci qualcosa che non vogliamo sentirci dire. Stare in relazione vuol dire abbandonare verità su noi stessi per poter crescere e migliorare.
Avere una relazione con Dio è la stessa identica cosa, solo che le verità scomode da accettare sono quelle all’interno di noi stessi.

Sacrificio e stregoneria
Sacrificio” deriva dall’unione di due parole latine: “sacrum” e “facere”, quindi vuol dire: “compiere qualcosa di sacro”. Non vuol dire privarsi, né farsi o fare del male. Sacrificio vuol dire ricavare del tempo per noi stessi, vuol dire aiutare il prossimo a discapito del nostro tempo, vuol dire offrire tutto l’amore che siamo in grado di dare.

Con lo stesso senso troviamo la parola, sempre latina, “sacerdos, -otis” (“sacerdote”; “sacerdotessa”) in riferimento a una persona che ha deciso di trascorrere la sua vita in piena relazione con il divino.
A loro ogni persona comune ha da sempre affidato le proprie paturnie, a loro – tralasciamo le lotte di potere, cerchiamo solo il senso archetipo del sacerdos – si sono affidati per avere soluzioni o buoni consigli.
Il tempo ha poi relegato il ruolo solo al maschile, perché – come spiegato in precedenza sull’articolo dedicato ai misteri del femminile – abbiamo paura di ciò che non conosciamo e preferiamo rimanere sempre ben ancorati alla logica. Così la parte femminile è diventata la stregoneria da combattere con ogni mezzo. Ecco perchè i misteri nelle religioni vanno bene, purché siano sempre più o meno spiegati.

Verità
Anche ai nostri giorni preferiamo zittire, insultare, sminuire e combattere chi parla di quello che non vogliamo sentire. Siamo tutti insegnanti di tutti, ma non riusciamo a tollerale chi parla guidato da una Verità che proviene direttamente dal proprio interno.
Quanti di noi preferiscono circondarsi di persone che non si mettono mai in gioco? Che non vanno oltre quello che viene propinato? Sappiamo quanto possa essere veramente dura avere accanto chi vuole correggersi e migliorarsi, chi sa toccare le corde più tese della nostra vita.

Accettiamo di vivere nell’infelicità perché abbiamo paura dei cambiamenti” ci insegna il libro e il film “Mangia prega ama”, ma è anche vero che spesso accettiamo di vivere nell’infelicità perché non vogliamo ammettere che c’è moltissimo altro pronto già per noi. Non vogliamo accettare che possiamo lasciare andare tutto ciò che ci fa male, non vogliamo far crollare le nostre certezze.

E allora ecco che la verità più scomoda di tutte è solo una: per avere una relazione sana, anche con Dio, bisogna mettersi in discussione il più possibile. Far crollare ogni certezza che abbiamo costruito su di noi e sul mondo.

“Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a Lui gradito e perfetto”

- (Rm 12,1-2)

Albero
Se un albero dà buoni frutti è merito delle radici. Ed è proprio quello che accade con noi: siamo ciò che pensiamo, la nostra luce interiore è strettamente connessa ai nostri pensieri più inconsci.
And in the end the love you take is equal to the love you make” (“E alla fine l’amore che ricevi è uguale all’amore che crei”) cantano i Beatles nella loro “The End”.
Proprio per questi motivi il simbolo per eccellenza della relazione con Dio è un albero.

È dalle radici, nascoste ai nostri occhi perché si nutrono del terreno, che la linfa scorre su tutto il tronco, per andare ai rami e quindi alle foglie, ai fiori e ai frutti. Se siamo in un terreno arido non possiamo di certo dare qualcosa al mondo. Ma l’albero incolpa il terreno per la mancanza di nutrimento?

Allora, perché noi tendiamo a incolpare l’esterno? Rendersi conto che tutto parte dal nostro interno è, lo ripetiamo, una delle verità più scomode in assoluto, eppure ci sentiamo comodi nella menzogna che ci raccontiamo.

Sei tu
Vi raccontiamo una piccola storiella di nostra inventiva ma che ha come senso – più o meno – quello descritto da molti saggi:

C’era una volta un ragazzo cresciuto in un villaggio con pochissimi abitanti, tutti scuri di capelli e di pelle. Era amato e ben voluto da tutti, eppure la comunità non faceva altro che ricordargli costantemente quanto fosse bianco. Il ragazzo, infatti, emanava una luce che altri non possedevano e che rendeva la sua pelle, i suoi capelli e i suoi occhi totalmente bianchi.
Il ragazzo faceva buon viso a cattivo gioco, sentendosi ferito da parole sì che descrivevano la realtà dei fatti, ma che non facevano altro che rafforzare l’idea di quanto lui fosse diverso dal resto del gruppo. Gli ripetevano che gli volevano bene, eppure nessuno sembrava volere iniziare una relazione d’amicizia o di altro, con lui. Nessuno riusciva a offrirgli un lavoro, perché il sole scottava subito sulla sua pelle e questo gli causava molto dolore.
Decise, così, di partire per un viaggio, alla ricerca di un luogo che lo accettasse così come era. I suoi genitori e fratelli erano veramente preoccupati di questa sua decisione, ma non erano ciechi né sordi, sapevano quello che stava passando, così acconsentirono, gli prepararono del cibo, gli diedero un po’ di denaro e lo lasciarono al suo cammino.

Dopo qualche giorno arrivò in un villaggio di cui non conosceva la lingua. Le persone, però, erano festose con lui. Lo accolsero con sorrisi e abbracci sinceri, gli diedero da mangiare e un riparo lussuoso. Il ragazzo si sentiva bene, finalmente coccolato e compreso, anche se da sconosciuti.
I giorni passavano ma lui non riusciva a comprendere del tutto la nuova lingua. Aveva intuito che lo chiamavano “figlio del sole” per via dei suoi toni lucenti e bianchi. Non sapeva come prendere il tutto, ma poco gli importava: ora aveva amici e forse una ragazza che sembrava interessata a lui.
Dopo qualche mese, all’inizio dell’inverno, il Grande Capo venne alla sua tenda e, tra vari gesti, il ragazzo capì che era pronta una cerimonia in suo onore. Si preparò di tutto punto, ma quando mancavano pochi minuti all’inizio, la figlia del Grande Capo, colei che era davvero interessata a lui, gli fece cenno di scappare via. Capì a quel punto che la cerimonia consisteva nella sua morte, per offrire quel corpo lucente agli dèi che avevano fatto sparire il sole all’inizio dell’inverno.

Spaventato dalla minaccia, il ragazzo si ritrovò solo e al buio in un bosco ma finalmente al sicuro. La sua pelle, infatti, rifletteva il cammino davanti a sé e lui poté proseguire con la sua vita con una nuova consapevolezza data dal suo nuovo nomignolo: avrebbe potuto fare da guardiano notturno al villaggio.

Cosa vuol dire questa breve storia? Tutti nasciamo con una luce interiore e nessuno, neanche chi ci ama sul serio, potrà dirci cosa farne perché spesso non ci comprenderà esattamente come noi non conosciamo noi stessi. Allo stesso tempo non possiamo affidarci a chi ci tratta con troppi salamelecchi (Dante ha un girone per gli adulatori, ricordate?) perché non stanno di certo facendo il nostro bene, anzi. Ci uccidono piano piano.
Solo noi stessi possiamo davvero capire come sfruttare i nostri talenti, e cosa fare della nostra vita, anche attraverso la sofferenza. Gli altri possono farci da supporto, così come noi possiamo supportarli, ma l’unico modo per farci davvero apprezzare è non avere paura di dichiarare ciò che siamo.

Pregare
Ecco quindi che la preghiera diventa un momento per tirare fuori ciò che abbiamo e confidare nel fatto che ci sia qualcuno ad ascoltarci, anche solo noi stessi. Ecco che con la preghiera ci mettiamo in gioco e cerchiamo nuove soluzioni ai nostri problemi.
Vi sarà di certo capitato di fare un gioco di logica: che succede quando prendiamo una scelta che porta in un vicolo cieco? Torniamo indietro e valutiamo nuove opzioni.
E allora perché non lo facciamo anche nella vita? Perché non ci mettiamo in gioco? Perché non tendiamo il dito verso Dio?

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