Oggi analizziamo il trentaduesimo canto dell’Inferno. Ci imbattiamo nei traditori, sia dei parenti che della patria. È il peccato peggiore, in quanto chi lo compie lo fa deliberatamente. Sono anime ingannatrici, che non conoscono la lealtà e l’affetto nei confronti delle persone più vicine e delle Istituzioni. Mancano di empatia e compassione, per questo sono avvolte nel freddo più totale.
Sono quattordici le anime che conosceremo in questo canto, a significare che, seppur sia un peccato dal quale tutti ci proclamiamo innocenti, nella realtà appartiene a tutti noi.
Le domande che ci suscita il canto sono latenti, perché è davvero difficile trovare tutto ciò in noi, soprattutto se, come le anime, siamo persone portate a colpevolizzare l’esterno per qualsiasi cosa ci accada.
Al solito, vi ricordiamo che analizziamo il canto solo ed esclusivamente dal punto di vista esoterico, comparandolo con quello che è stato ed è il nostro cammino spirituale.
Questi articoli, insomma, servono solo come spunti di riflessione su noi stessi, dove ogni protagonista che incontriamo è una parte di noi.
Le domande che ci suscita il canto sono latenti, perché è davvero difficile trovare tutto ciò in noi, soprattutto se, come le anime, siamo persone portate a colpevolizzare l’esterno per qualsiasi cosa ci accada.
Al solito, vi ricordiamo che analizziamo il canto solo ed esclusivamente dal punto di vista esoterico, comparandolo con quello che è stato ed è il nostro cammino spirituale.
Questi articoli, insomma, servono solo come spunti di riflessione su noi stessi, dove ogni protagonista che incontriamo è una parte di noi.
S’ïo avessi le rime aspre e chiocce,
come si converrebbe al tristo buco
sovra ’l qual pontan tutte l’altre rocce,
io premerei di mio concetto il suco
più pienamente; ma perch’io non l’abbo,
non sanza tema a dicer mi conduco;
ché non è impresa da pigliare a gabbo
discriver fondo a tutto l’universo,
né da lingua che chiami mamma o babbo.
Ma quelle donne aiutino il mio verso
ch’aiutaro Anfïone a chiuder Tebe,
sì che dal fatto il dir non sia diverso.
come si converrebbe al tristo buco
sovra ’l qual pontan tutte l’altre rocce,
io premerei di mio concetto il suco
più pienamente; ma perch’io non l’abbo,
non sanza tema a dicer mi conduco;
ché non è impresa da pigliare a gabbo
discriver fondo a tutto l’universo,
né da lingua che chiami mamma o babbo.
Ma quelle donne aiutino il mio verso
ch’aiutaro Anfïone a chiuder Tebe,
sì che dal fatto il dir non sia diverso.
Siamo giunti ora all’ultima tappa dell’Inferno (il racconto sarà ovviamente suddiviso negli ultimi tre canti rimasti), quindi stiamo nel posto più buio e profondo dell’Universo e se è vero che: “Come in cielo, così in terra”, “Come nel piccolo, così nel grande”, siamo di fronte anche alla parte più violenta e drammatica del nostro essere, quella che è più vicina a Lucifero, colui che incarna il male assoluto.
Dante, come al solito, deve descrivere ambientazione e dannazione il più fedelmente possibile ma sa di non essere in grado di utilizzare “rime aspre e chiocce” – cioè un linguaggio crudo e stridente – invoca così l’aiuto delle Muse, le quali sapranno di certo accogliere la richiesta del Poeta.
Questo ci mette in una posizione di attenti osservatori, ben consapevoli dell’arduo lavoro del Poeta nel parlare di argomenti non proprio leggeri. Capiamo al contempo che la nostra concentrazione deve assumere la stessa mole d’impegno di colui che ci sta mostrando il più grave dei peccati perché, al solito, non ne siamo esenti.
Oh sovra tutte mal creata plebe
che stai nel loco onde parlare è duro,
mei foste state qui pecore o zebe!
Come noi fummo giù nel pozzo scuro
sotto i piè del gigante assai più bassi,
e io mirava ancora a l’alto muro,
dicere udi’mi: «Guarda come passi:
va sì, che tu non calchi con le piante
le teste de’ fratei miseri lassi».
che stai nel loco onde parlare è duro,
mei foste state qui pecore o zebe!
Come noi fummo giù nel pozzo scuro
sotto i piè del gigante assai più bassi,
e io mirava ancora a l’alto muro,
dicere udi’mi: «Guarda come passi:
va sì, che tu non calchi con le piante
le teste de’ fratei miseri lassi».
Vediamo fin da subito un atteggiamento diverso in Dante. La compassione mostrata precedentemente lascia il posto al giudizio, tanto alle anime lì presenti dice chiaramente quanto sarebbe stato meglio se fossero nate pecore o capre.
Virgilio, invece, sembra rimanere silenzioso e calmo, dice solamente a Dante di prestare attenzione a dove mette i piedi perché potrebbe calpestare le teste dei “fratelli sciagurati e infelici”. Prestiamo attenzione alla parola “fratelli”. Essa può indicare sia il legame che unisce le prime due anime che incontreremo, sia il fatto che ci troviamo nella prima parte del Cocito, chiamata Caina. Qui sono presenti, infatti, le anime che hanno tradito i propri parenti.
Un’altra versione, certo più sentimentale, può essere intesa come legame che unisce ognuno di noi, proprio perché è un peccato presente al nostro più oscuro interno.
Certo, Virgilio descrive le anime come “sciagurate” e “infelici”, ma il suo tono non è sprezzante, semplicemente descrive il loro stato.
Per ch’io mi volsi, e vidimi davante
e sotto i piedi un lago che per gelo
avea di vetro e non d’acqua sembiante.
Non fece al corso suo sì grosso velo
di verno la Danoia in Osterlicchi,
né Tanaï là sotto ’l freddo cielo,
com’era quivi; che se Tambernicchi
vi fosse sù caduto, o Pietrapana,
non avria pur da l’orlo fatto cricchi.
e sotto i piedi un lago che per gelo
avea di vetro e non d’acqua sembiante.
Non fece al corso suo sì grosso velo
di verno la Danoia in Osterlicchi,
né Tanaï là sotto ’l freddo cielo,
com’era quivi; che se Tambernicchi
vi fosse sù caduto, o Pietrapana,
non avria pur da l’orlo fatto cricchi.
Ora Dante descrive l’ambiente che vede: il fiume Cocito si estende ghiacciato ai suoi piedi. La spessa superficie supera la crosta del ghiaccio che si forma in pieno inverno sia nel Danubio in Austria che nel Don in Russia. Sentiamo già i primi brividi di freddo, eppure continua dicendoci che se mai dovessero lì cadere i monti Tambura (1895 m) o il Pania della Croce (1858), tra più possenti delle Alpi Apuane, essi non riuscirebbero neanche a formare un leggero scricchiolio lungo lo strato più sottile del Cocito.
Come accennato prima, questa metafora serve a farci capire che le anime qui presenti non hanno modo di conoscere un misero sentimento di empatia, compassione e amore. I loro cuori sono totalmente avvolti nella freddezza d’animo e, come vedremo, ne sono anche abbastanza consapevoli.
Tra l’altro questa atmosfera a dir poco fredda riesce a impossessarsi di ogni presente, addirittura Dante. Ma anche questo lo vedremo più in avanti.
E come a gracidar si sta la rana
col muso fuor de l’acqua, quando sogna
di spigolar sovente la villana,
col muso fuor de l’acqua, quando sogna
di spigolar sovente la villana,
livide, insin là dove appar vergogna
eran l’ombre dolenti ne la ghiaccia,
mettendo i denti in nota di cicogna.
Ognuna in giù tenea volta la faccia;
da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo
tra lor testimonianza si procaccia.
eran l’ombre dolenti ne la ghiaccia,
mettendo i denti in nota di cicogna.
Ognuna in giù tenea volta la faccia;
da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo
tra lor testimonianza si procaccia.
Ora la nostra immaginazione segue l’abbassamento dello sguardo di Dante: le anime sono totalmente immerse in questo lago a eccezione del volto. Sembrano come le rane che in estate gracidano tenendo solo il muso fuori dall’acqua, solo che i loro visi sono impalliditi dal freddo e proprio per questo battono continuamente i denti come fanno le cicogne con il proprio becco.
Ad aumentare il senso di disagio e impotenza, i loro occhi che, pieni di lacrime che scendendo si condensano del tutto, provocano dolore tale che nessuno riesce a tenerli completamente aperti.
Quand’io m’ebbi dintorno alquanto visto,
volsimi a’ piedi, e vidi due sì stretti,
che ’l pel del capo avieno insieme misto.
«Ditemi, voi che sì strignete i petti»,
diss’io, «chi siete?». E quei piegaro i colli;
e poi ch’ebber li visi a me eretti,
li occhi lor, ch’eran pria pur dentro molli,
gocciar su per le labbra, e ’l gelo strinse
le lagrime tra essi e riserrolli.
Con legno legno spranga mai non cinse
forte così; ond’ei come due becchi
cozzaro insieme, tanta ira li vinse.
volsimi a’ piedi, e vidi due sì stretti,
che ’l pel del capo avieno insieme misto.
«Ditemi, voi che sì strignete i petti»,
diss’io, «chi siete?». E quei piegaro i colli;
e poi ch’ebber li visi a me eretti,
li occhi lor, ch’eran pria pur dentro molli,
gocciar su per le labbra, e ’l gelo strinse
le lagrime tra essi e riserrolli.
Con legno legno spranga mai non cinse
forte così; ond’ei come due becchi
cozzaro insieme, tanta ira li vinse.
Dante abbassa ancora di più lo sguardo (da notare come la descrizione ci spinge sempre più in basso) e nota due dannati così vicini che avevano mescolati i propri capelli. Si avvicina a loro chiedendogli chi siano, ma questi, volgendo il capo in direzione del vivo, aprono gli occhi e il bruciore del freddo a contatto con le loro lacrime li acceca, provocando nei due un’ira così violenta che cominciano a scontrarsi l’uno con l’altro.
Vediamo quindi un’ira cieca, in cui la ragione è completamente impotente. Si picchiano tra di loro come se volessero darsi entrambi la colpa, e preferiscono sfogare la propria rabbia che mettersi a parlare con chi li ha interrogati. Per scoprire chi sono, dobbiamo andare avanti con la spiegazione del canto.
E un ch’avea perduti ambo li orecchi
per la freddura, pur col viso in giùe,
disse: «Perché cotanto in noi ti specchi?
Se vuoi saper chi son cotesti due,
la valle onde Bisenzo si dichina
del padre loro Alberto e di lor fue.
D’un corpo usciro; e tutta la Caina
potrai cercare, e non troverai ombra
degna più d’esser fitta in gelatina:
non quelli a cui fu rotto il petto e l’ombra
con esso un colpo per la man d’Artù;
non Focaccia; non questi che m’ingombra
col capo sì, ch’i’ non veggio oltre più,
e fu nomato Sassol Mascheroni;
se tosco se’, ben sai omai chi fu.
E perché non mi metti in più sermoni,
sappi ch’i’ fu’ il Camiscion de’ Pazzi;
e aspetto Carlin che mi scagioni».
per la freddura, pur col viso in giùe,
disse: «Perché cotanto in noi ti specchi?
Se vuoi saper chi son cotesti due,
la valle onde Bisenzo si dichina
del padre loro Alberto e di lor fue.
D’un corpo usciro; e tutta la Caina
potrai cercare, e non troverai ombra
degna più d’esser fitta in gelatina:
non quelli a cui fu rotto il petto e l’ombra
con esso un colpo per la man d’Artù;
non Focaccia; non questi che m’ingombra
col capo sì, ch’i’ non veggio oltre più,
e fu nomato Sassol Mascheroni;
se tosco se’, ben sai omai chi fu.
E perché non mi metti in più sermoni,
sappi ch’i’ fu’ il Camiscion de’ Pazzi;
e aspetto Carlin che mi scagioni».
A rispondere alla domanda di Dante è un’altra anima, che ha perso le orecchie proprio a causa del freddo. Questa gli dice che i due fratelli sono Alessandro e Napoleone degli Alberti, Conti di Mangona e figli di Alberto IV degli Alberti (1139-1203) che si sono traditi a vicenda per incassare interamente l’eredità del padre.
Secondo l’anima non esistono dannati più meritevoli di stare qui dei due, né Mordrét (secondo alcune versioni parente stretto del re Artù che lo uccise), né Focaccia de’ Cancellieri (nessuna fonte storica sa chi abbia ucciso tra i suoi parenti, ma di certo il pistoiese diede origine agli scontri all’interno della sua famiglia, divisa tra guelfi bianchi e neri), né ancora Sassolo Mascheroni di cui, però, nessuna fonte storica conferma i suoi delitti.
Dopo aver sputato sentenze sui suoi compagni, l’anima si presenta come Camicione de’ Pazzi che in vita ha ucciso Ubertino de’ Pazzi per prendersi alcune proprietà divise in comune. Si presenta come unico scopo di screditare un altro suo parente: Carlino de’ Pazzi, reo di una colpa più grave che di conseguenza cancella quella di Camicione nella genealogia famigliare.
Carlino, guelfo bianco, dopo la cacciata del suo partito, avvenuta nel 1302, e l’esilio da Firenze, vendette il suo castello di Piantravigne alla fazione rivale dei guelfi neri in cambio del ritorno in città. Diviene così a tutti gli effetti un traditore della patria.
Prima di procedere, fermiamoci un attimo ad analizzare il concetto di traditori dei famigliari. Arrivati a questo punto dovremmo capire che non serve uccidere o tradire in senso fisico un nostro parente per divenirlo, basta andare a ripensare a tutte le liti avvenute con i nostri congiunti. Abbiamo mai seminato zizzania? Abbiamo mai litigato per gli averi? Abbiamo mai cercato di passare avanti qualcuno, o abbiamo mai fatto in modo di farci vedere migliori? Quello che viene tradito, infatti, è il concetto di legame famigliare. Se andiamo a vedere che tale concetto deve essere applicato anche ai nostri amici più stretti, per poi essere allargato all’intera umanità, capiamo bene che in questo girone non siamo per niente innocenti.
Poscia vid’io mille visi cagnazzi
fatti per freddo; onde mi vien riprezzo,
e verrà sempre, de’ gelati guazzi.
E mentre ch’andavamo inver’ lo mezzo
al quale ogne gravezza si rauna,
e io tremava ne l’etterno rezzo;
se voler fu o destino o fortuna,
non so; ma, passeggiando tra le teste,
forte percossi ’l piè nel viso ad una.
Piangendo mi sgridò: «Perché mi peste?
se tu non vieni a crescer la vendetta
di Montaperti, perché mi moleste?».
E io: «Maestro mio, or qui m’aspetta,
sì ch’io esca d’un dubbio per costui;
poi mi farai, quantunque vorrai, fretta».
Lo duca stette, e io dissi a colui
che bestemmiava duramente ancora:
«Qual se’ tu che così rampogni altrui?».
«Or tu chi se’ che vai per l’Antenora,
percotendo», rispuose, «altrui le gote,
sì che, se fossi vivo, troppo fora?».
«Vivo son io, e caro esser ti puote»,
fu mia risposta, «se dimandi fama,
ch’io metta il nome tuo tra l’altre note».
Ed elli a me: «Del contrario ho io brama.
Lèvati quinci e non mi dar più lagna,
ché mal sai lusingar per questa lama!»
fatti per freddo; onde mi vien riprezzo,
e verrà sempre, de’ gelati guazzi.
E mentre ch’andavamo inver’ lo mezzo
al quale ogne gravezza si rauna,
e io tremava ne l’etterno rezzo;
se voler fu o destino o fortuna,
non so; ma, passeggiando tra le teste,
forte percossi ’l piè nel viso ad una.
Piangendo mi sgridò: «Perché mi peste?
se tu non vieni a crescer la vendetta
di Montaperti, perché mi moleste?».
E io: «Maestro mio, or qui m’aspetta,
sì ch’io esca d’un dubbio per costui;
poi mi farai, quantunque vorrai, fretta».
Lo duca stette, e io dissi a colui
che bestemmiava duramente ancora:
«Qual se’ tu che così rampogni altrui?».
«Or tu chi se’ che vai per l’Antenora,
percotendo», rispuose, «altrui le gote,
sì che, se fossi vivo, troppo fora?».
«Vivo son io, e caro esser ti puote»,
fu mia risposta, «se dimandi fama,
ch’io metta il nome tuo tra l’altre note».
Ed elli a me: «Del contrario ho io brama.
Lèvati quinci e non mi dar più lagna,
ché mal sai lusingar per questa lama!»
Andando avanti lungo le sponde del fiume arriviamo alla parte chiamata Antenora, dove sono condannati i traditori della patria. I loro volti sono più lividi rispetto ai primi e Dante continua a tremare all’unisono con loro fino a quando, improvvisamente quanto per sbaglio, calpesta la testa di uno dei dannati.
Questo, giustamente, se ne lamenta, e urla per sapere il motivo per il quale il vivo stia aumentando la sua pena, già abbastanza dura per quanto accaduto durante la Battaglia di Montaperti. Sentendo quel riferimento, Dante dice a Virgilio di aspettarlo, perché vuole parlare proprio con quell’anima. Torna indietro e chiede il nome al dannato, il quale è intenzionato a non risponde e in più lo rimbecca per l’atteggiamento violento che ha avuto nei suoi confronti.
Così il Sommo Poeta tenta di imitare la sua Guida e si pone all’anima con lusinghe: se gli dirà il suo nome, lui gli concederà il ricordo nel mondo dei vivi.
L’anima sembra deriderlo, rispondendo che ciò che desidera è in realtà l’anonimato, per cui certe adulazioni non sono per niente efficaci.
Allor lo presi per la cuticagna
e dissi: «El converrà che tu ti nomi,
o che capel qui sù non ti rimagna».
Ond’elli a me: «Perché tu mi dischiomi,
né ti dirò ch’io sia, né mosterrolti,
se mille fiate in sul capo mi tomi».
Io avea già i capelli in mano avvolti,
e tratto glien’avea più d’una ciocca,
latrando lui con li occhi in giù raccolti,
quando un altro gridò: «Che hai tu, Bocca?
non ti basta sonar con le mascelle,
se tu non latri? qual diavol ti tocca?».
«Omai», diss’io, «non vo’ che più favelle,
malvagio traditor; ch’a la tua onta
io porterò di te vere novelle».
«Va via», rispuose, «e ciò che tu vuoi conta;
ma non tacer, se tu di qua entro eschi,
di quel ch’ebbe or così la lingua pronta.
e dissi: «El converrà che tu ti nomi,
o che capel qui sù non ti rimagna».
Ond’elli a me: «Perché tu mi dischiomi,
né ti dirò ch’io sia, né mosterrolti,
se mille fiate in sul capo mi tomi».
Io avea già i capelli in mano avvolti,
e tratto glien’avea più d’una ciocca,
latrando lui con li occhi in giù raccolti,
quando un altro gridò: «Che hai tu, Bocca?
non ti basta sonar con le mascelle,
se tu non latri? qual diavol ti tocca?».
«Omai», diss’io, «non vo’ che più favelle,
malvagio traditor; ch’a la tua onta
io porterò di te vere novelle».
«Va via», rispuose, «e ciò che tu vuoi conta;
ma non tacer, se tu di qua entro eschi,
di quel ch’ebbe or così la lingua pronta.
Ed ecco che, permeato nel clima di gelo e odio, Dante cede all’ira e minaccia l’anima di strappargli tutti i capelli se si ostina a non proferire il suo nome. Anche qui, l’anima rimane impassibile e per niente scossa. È chiaro che i traditori si imbarazzano così tanto del peccato commesso che non vogliono notorietà. La superbia ha lasciato il posto alla vergogna, eppure non hanno ancora voglia di pentirsi, forse perché non ne conoscono il modo.
Comunque, alla risposta dell’anima, Dante la prende per i capelli, glieli tira, tanto che il dannato comincia a guaire come un cane, scatenando il fastidio di un’altra anima che gli urla contro: “Che cos’hai, Bocca? Non ti basta battere i denti per il freddo, devi anche latrare? Che diavolo hai?”. Ricordiamo che i dannati hanno gli occhi chiusi, proprio perché praticamente impossibilitati ad aprirli, quindi nessuno può vedere quanto sta accadendo, un po’ come abbiamo spiegato nell’articolo “Within you without you”.
Comunque, da questo grido disperato, Dante apprende che l’anima tanto odiata risponde al nome di Bocca degli Abati.
Parliamo di un guelfo fiorentino che durante la Battaglia di Montaperti (1260) sembra abbia reciso la mano di Jacopo de’ Pazzi che reggeva lo stendardo, provocando la disfatta della fazione.
Anche qui, non ci sono abbastanza prove che fosse stato lui a compiere il gesto, ma sono bastate a Dante per collocarlo tra i traditori della patria. Così lo deride, canzonandolo che ormai non ha più bisogno di perdere tempo con lui perché ha capito chi è e, cedendo alla vendetta, lo assicura che racconterà al mondo ciò che ha fatto.
Bocca degli Abati, però, risponde allo stesso modo vendicativo dicendo: “Vattene e racconta ciò che vuoi, purché tu lo faccia anche dell’anima che ha fatto il mio nome”.
El piange qui l’argento de’ Franceschi:
‘Io vidi’, potrai dir, ‘quel da Duera
là dove i peccatori stanno freschi’.
Se fossi domandato ‘Altri chi v’era?’,
tu hai dallato quel di Beccheria
di cui segò Fiorenza la gorgiera.
Gianni de’ Soldanier credo che sia
più là con Ganellone e Tebaldello,
ch’aprì Faenza quando si dormia».
‘Io vidi’, potrai dir, ‘quel da Duera
là dove i peccatori stanno freschi’.
Se fossi domandato ‘Altri chi v’era?’,
tu hai dallato quel di Beccheria
di cui segò Fiorenza la gorgiera.
Gianni de’ Soldanier credo che sia
più là con Ganellone e Tebaldello,
ch’aprì Faenza quando si dormia».
L’anima “spia” è Buoso da Duera, signore di Soncino e di Cremona, posto nel terribile girone a seguito degli aventi del 1265. In quell’anno Manfredi di Svezia, re di Sicilia, lo avvertì del passaggio dei francesi di Carlo d’Angiò attraverso l’Oglio. Nonostante la notizia data in tempo, Buoso non rafforzò le sponde del fiume e l’esercito nemicò riuscì così a recarsi a sud, verso il campo che ospitò la battaglia di Benevento (1266) conclusa con la morte di Manfredi. Sembrerebbe che Buoso abbia fatto finta di niente accettando il denaro francese.
Come in un effetto domino, però, l’anima continua a fare i nomi di tutti i presenti, come se questo facesse passare in sordina il proprio peccato, quindi andiamo a vederli con ordine. Abbiamo Tesauro dei Beccheria, condannato e giustiziato nel 1258 per aver favorito il rientro dei ghibellini a Firenze; poi vediamo Gianni de’ Soldanieri, di famiglia ghibellina che proprio la disfatta di Benevento passò alla parte guelfa. Continuiamo con Gano di Maganza che nella Chanson de Roland (poema dell’XI secolo) è il patrigno di Orlando e cognato di Carlo Magno; li tradisce entrambi a Roncisvalle, causando la morte dello stesso figliastro. Concludiamo con Tebaldello de’ Zambrasi, originario di Faenza che, nel 1280 e per vendetta, tradì la sua città facendo entrare la famiglia bolognese dei Gemerei.
Prima di concludere, però, è bene analizzare anche il senso dei traditori della patria. Se nel 1300 cambiare fazione politica significava alto tradimento, sul finire del 2023 dovremmo avere ben chiaro che questo può accadere. Va bene cambiare idee, pensiero, purché ci sia coerenza tra dire e fare. Quello che, secondo noi, oggigiorno è vicino al senso di Dante è il classico “predicare bene e razzolare male”. E purtroppo, senza che scendiamo nei dettagli che tutti conoscono, di questi peccatori ne è pieno il mondo politico.
Riflettiamo, quindi, anche noi: quante volte tendiamo a giudicare il prossimo senza accorgerci che lo additiamo per i nostri stessi errori? Quante volte non manteniamo la parola data? Quante altre diciamo di essere in un modo, ma facciamo l’esatto opposto?
Noi eravam partiti già da ello,
ch’io vidi due ghiacciati in una buca,
sì che l’un capo a l’altro era cappello;
e come ’l pan per fame si manduca,
così ’l sovran li denti a l’altro pose
là ’ve ’l cervel s’aggiugne con la nuca:
non altrimenti Tidëo si rose
le tempie a Menalippo per disdegno,
che quei faceva il teschio e l’altre cose.
«O tu che mostri per sì bestial segno
odio sovra colui che tu ti mangi,
dimmi ’l perché», diss’io, «per tal convegno,
che se tu a ragion di lui ti piangi,
sappiendo chi voi siete e la sua pecca,
nel mondo suso ancora io te ne cangi,
se quella con ch’io parlo non si secca».
ch’io vidi due ghiacciati in una buca,
sì che l’un capo a l’altro era cappello;
e come ’l pan per fame si manduca,
così ’l sovran li denti a l’altro pose
là ’ve ’l cervel s’aggiugne con la nuca:
non altrimenti Tidëo si rose
le tempie a Menalippo per disdegno,
che quei faceva il teschio e l’altre cose.
«O tu che mostri per sì bestial segno
odio sovra colui che tu ti mangi,
dimmi ’l perché», diss’io, «per tal convegno,
che se tu a ragion di lui ti piangi,
sappiendo chi voi siete e la sua pecca,
nel mondo suso ancora io te ne cangi,
se quella con ch’io parlo non si secca».
Allontanandosi da Bocca degli Abati, e probabilmente non curandosi troppo delle accuse che rivolge agli altri, Dante si imbatte in altre due anime che condividono la stessa buca. Sono così vicine che sembra quasi che le loro teste si facciano da cappelli a vicenda.
L’anima che sta sopra all’altra, però, in preda a una mostruosità totalmente animalesca, mangia avidamente la nuca del compagno.
Dante si avvicina e chiede, utilizzando le stesse lusinghe e moine che in origine ha avuto con Bocca degli Abati, gli domanda chi sia e perché sta facendo ciò. Al solito, in cambio della sua risposta lui gli promette fama nel mondo terreno.
Per sapere come andrà, però, dobbiamo attendere il prossimo mese, quando affronteremo il trentatreesimo canto dell’Inferno, totalmente dedicato al conte Ugolino.
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