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Disclaimer: la storia narrata è interamente inventata, seppur basata su eventi e persone reali. I nomi sono stati alterati per evitare che le persone coinvolte vengano a dare la caccia all'autore.
Tutti i miei Natali hanno sempre seguito uno schema consolidato, quasi noioso, cari cinque lettori: cena della Vigilia con i parenti di mio padre; pranzo di Natale con i parenti di mia madre; Santo Stefano con chi vuoi, tipo la Pasqua della filastrocca (di solito, amici, cinema, Blockbuster di turno e popcorn). Non ci sarebbe molto altro da dire, quindi la chiudo qua…
Sto scherzando, ovviamente. Pensavate di cavarvela con poco. Volevo, invece, raccontarvi, cari sei lettori (ah, se n’è aggiunto uno?) di quando ho finalmente iniziato a interpretare Babbo Natale alla cena della Vigilia dell’anno 2012.
Sì, perché, ogni anno, in quest’occasione, per la gioia di grandi e piccini, soprattutto dei grandi perché si fanno le scommesse su quale dei più piccoli si metterà a piangere per la spaventosissima maschera che viene usata per fare Babbo da prima che nascessi (per inciso, chi nel 1996 ha scommesso su di me ha vinto), qualcuno viene incaricato dalle organizzatrici della cena (mia zia Antonia e mia zia Rosa, un caro saluto) di mettersi un paio di cuscini dentro i pantaloni, il vestito, il berretto, la maschera e la barba finta (rimaste ovviamente ad ammuffire in una soffitta dall’anno prima) e portare i regali a tutti gli invitati. Regali che, solitamente, al 50% sono autorealizzati e all’altro 50% sono per i cugini e figli di cugini più piccoli. È brutto quando realizzi di aver fatto il salto nella prima categoria.
Una premessa, la famiglia di mio padre è molto numerosa: sono sei fratelli, lui compreso, tre maschi e tre femmine. Altrettante mogli e mariti, e siamo a dodici già così. Io e i cugini siamo tredici in totale, arrivando quindi a venticinque persone. Due cugine, sorelle tra loro, sono sposate (ventisette) e hanno, rispettivamente, tre figli e due figlie (il totale è a trentadue): nemmeno gli autori di This Is Us o Parenthood riuscirebbero a creare una famiglia così. E non ho contato fidanzati e fidanzate o amici vari ed eventuali che venivano sempre invitati... Modern Family, ecco, forse loro sì.
E ogni anno questa massa di gente è incaricata di portare o realizzare ciascuno qualcosa per la cena: Zie Antonia e Rosa i primi, di solito lasagne di vari tipi e pasta al salmone; Zii Giorgio (che in realtà si chiama Valentino ma tutti lo conoscono e lo chiamano con quell’altro nome e io non ho mai capito il perché) e Maria i secondi; mio padre i contorni (sempre, costantemente, ogni maledetto anno, piselli, o bisi come diciamo noi, patate al forno e radicchio ai ferri); infine, mio zio Mirco, il più piccolo, i dolci, dai semplici torroni ai vari panettoni e pandori. Come da tradizione veneta, i vini li devono portare tutti e non rimarranno sprecati. Dopodiché, a noi cugini toccano gli altri lavori: addobbare la taverna di mia zia Antonia, preparare le tavole con piatti, posate, bicchieri, tovaglioli, pane e quant’altro, stendere le panche su cui siederanno i giovani e forti, sistemare le sedie per i più anziani e realizzare antipasti e aperitivi. Quest’ultimo, modestamente, è il mio mondo: spritz, cocktail analcolici, crodini. Il bartender di famiglia, perfetto titolo per un’altra storia.
E stavo adempiendo a quell’incarico, come mio solito, anche quella Vigilia di Natale del 2012: stavo preparando il mio famosissimo, nella famiglia almeno, spritz (vi raccomando la regola dei tre, la mia preferita: un terzo di Aperol/Campari/Select, un terzo di Prosecco di quello buono, un terzo di acqua frizzante) quando mia zia Rosa mi si avvicina e mi dice solamente “È ora, è il tuo turno quest’anno”. Io capii all’istante. Le domande iniziarono ad accavallarsi nella mia mente: “Sarò in grado? I più piccoli mi riconosceranno subito? Mi verrà bene il “OH OH OH”? Potrò tenere gli occhiali o non vedrò assolutamente nulla? Cosa farò con le scarpe?” Quest’ultima domanda potrebbe sembrarvi stupida, cari sette lettori, ma in realtà è fondamentale: essendo il vestito privo di calzature da sempre, noi ragazzi cerchiamo di indovinare chi si celi sotto la maschera riconoscendo le scarpe che il Babbo indossa. Qualche anno è molto facile indovinare (cara Benni, eri l’unica che poteva indossare le Vans di tela il 24 dicembre con -2° fuori perché tu ci vivi già in quella casa), in altri anni molto più difficile (soprattutto se chiedi al vicino di casa, come successe al Natale dei miei dieci anni). La paura di essere scoperti subito e di rovinare la gioia della festa a tutti si faceva largo in me ma riuscii a tenerle testa.
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Inizia la cena. Tutti ammassati nella taverna: al tavolo a sinistra del grande camino che troneggia in un angolo dello scantinato siedono gli adulti; a quello a destra i “bambini”, cioè tutti coloro che vanno dai zero ai trentacinque anni. Mangiamo gli antipasti, poi i primi, poi aspettiamo, aspettiamo. Perché aspettiamo, esimi otto lettori? È presto detto, mancano parte dei secondi: la mia famiglia è conosciuta per essere una famiglia di ritardatari cronici e mio zio Giorgio, sua moglie Emma e i figli Marco, Denis e Alessandra sono i più ritardatari di tutti. Se dai un orario, per loro stima quarantacinque-cinquanta minuti in più oltre alla mezz’ora di ritardo che avranno tutti gli altri. Oh, eccoli, sono arrivati come fossero in perfetto orario. Mangiamo i secondi e i contorni. Si avvicinano le 22.15, ora in cui dovrò andare a cambiarmi al bagno del primo piano, dove si trovano anche gli altri regali. Beviamo il sorbetto al limone. È ora, showtime!
Grazie alla penombra e al casino che iniziano a fare i bimbi quando vedono che le luci sono state abbassate, sgattaiolo agilmente (beh, compatibilmente con centodieci chili che pesavo all’epoca; ecco perché sono stato scelto, il grasso naturale) e vado nel bagno. Mi cambio, metto i copri pantaloni rossi, la giacca rossa e bianca, un cuscino sotto che non si sa mai ed è il momento di indossarla, quella maledetta maschera, quella che mi fece piangere sedici anni prima. La indosso e… non puzza. Ero convinto puzzasse di vecchio, stantio, ammuffito, e invece no. Verrò a sapere più tardi che mia zia lava il completo prima di ogni Natale, ovviamente. Metto su la barba finta e il berretto e sono pronto. Niente occhiali, devo andare a tentoni da talpa quale sono. Fortunatamente gli zii Mirco e Rosa e le mie cugine Martina e Benedetta si offrono per darmi una mano a scendere le scale e per portare i regali in taverna. Un aiuto fondamentale. Entro dalla porta a vetri che separa le scale dall’ambiente della cantina, inspiro e “OH, OH, OH, BUON NATALE!”.
L’autore in costume (foto autentica) |
Inizio a distribuire i regali, passando in mezzo a tavoli e sedie, sempre senza occhiali: “Questo è per Andrea, dov’è? Ah, eccolo, Andrea”, “E Angelica, dove sei? Non ti nascondere dietro a tua mamma, piccola, vieni a dare un abbraccio a Babbo Natale”, “Questo è per Denis e questo per Marco, ecco a voi”, “Gianluca, dov’è Gianluca? Eccolo lì, un cinque alto a Babbo, dai!”, “Un regalo anche per Rosa e Michele e uno per Stefano e Antonia”, “Qui c’è scritto Alessandra, ma quale delle due sarà?” (anche la compagna di mio padre, oltre alla mia sopracitata cugina, si chiama Alessandra, c’è sempre confusione in questi momenti) e, infine, il classicissimo “Adesso vi devo lasciare, devo ripartire… ho anche lasciato le renne in doppia fila! Buon Natale, all’anno prossimo, OH, OH, OH!”.
Un successone. Nato per quel ruolo. Dopotutto il physique du role ci sta già tranquillamente.
Ed ecco come andò il mio primo anno da Babbo Natale. Ce ne sarebbero altre di storie che si potrebbero raccontare, come quella accaduta l’anno successivo, quando mio cugino Luca è entrato in bagno per caso mentre mi stavo cambiando (e avevo dimenticato di chiudere a chiave). Lui, fino a un secondo prima di aprire la porta, ci credeva ancora a Babbo Natale. Ma questo potrebbe essere il soggetto di un altro racconto.
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