martedì 12 dicembre 2023

#Musica: Barche di carta

Siamo quasi a metà del periodo natalizio, quello che più amiamo durante l’anno e quasi per niente per una mera visione consumistica delle festività. Lo ammettiamo: è bellissimo girare per mercatini alla ricerca di dolcetti e regali, ma per noi il Natale è tempo di nuovo, di nascita e, di conseguenza, di sistemare ciò che non va nella nostra vita.

I buoni propositi sono solitamente associati al Capodanno, ma, diciamoci la verità: è nel momento in cui la famiglia si riunisce che consideriamo sul serio le nostre radici, stiamo faccia a faccia con i nostri traumi ricordando il passato e abbiamo la consapevolezza che finché stiamo qui possiamo lavorare sulle nostre relazioni.

Vi abbiamo già parlato di “Barche di carta” di Fabio Fois in radio, oggi vogliamo scrivere le nostre considerazioni sul testo. Va da sé che ne parleremo seguendo le immagini che si sono palesate nella nostra mente perché dopotutto è giusto che ognuno trovi le sue proprie sfumature.

Sento i rumori di buon mattino
schiudo gli occhi dal sonno
e poi mi faccio un caffè
giro nudo per casa con la testa sospesa
non mi lavo la faccia e mi chiedo perché…

Perché dormo da sveglio e non trovo il coraggio
di affrontare quel buio che c’è dentro di me
che rimpiango quel tempo, quando tutto era denso
di colori pastello che portavo con me.

Ma che ne sai di quante volte ho pianto
e se qualcuno mi asciugava il volto?

Quando abbiamo ascoltato il brano per la prima volta eravamo proprio in macchina con Fabio, direzione concerto di Marco Profeta. Siano benedetti i trucchi waterproof, perché le lacrime hanno cominciato a premere per uscire fin da subito.


I rapporti umani non sono facili, meno che mai quando chi abbiamo di fronte ha dei comportamenti che non riusciamo ad accettare in pieno e che ci fanno allontanare. Anche se chiudiamo con qualcuno, però, non vuol dire che quella ferita guarisca in fretta o lo faccia da sé, bisogna sempre guardarsi dentro e trovare la radice del male che ci è stato piantato.

Lo sapete: per noi ogni cosa ha il suo giusto tempo. Lo ripeteremo fino alla nausea: “Una pianta invernale non si lamenta se non sboccia in primavera come le altre” quindi non andremo mai a giudicare chi non riesce ad affrontare un proprio dolore subito, perché è giusto farlo quando si è pronti.

Ciò che abbiamo notato anche solo dall’intonazione della voce di Fabio, è una rabbia crescente dentro di sé, ora finalmente pronta a tirare fuori quello che il fondale ha nascosto per molto tempo. Da questo momento in poi ci affideremo al nostro flusso di coscienza emotivo.

Quando tutto era puro e potevo sognare
e tu eri su barche di carta che sfioravano il mare.
Quando di ogni mia tempesta eri sempre l’approdo
e la mia barca sicura al sicuro si poteva fermare.

L’anima è un riccio che si copre di spine
non si lascia toccare per non farsi ferire
l’ho lasciata da sola sulla mia barca di carta
per non dire a nessuno quanto spesso mi manca.

In queste due strofe troviamo due immagini contrastanti, due sentimenti opposti ma che dopotutto sono facce della stessa medaglia: la sicurezza di avere un pilastro nella propria infanzia e l’estremo dolore che si prova quando tale colonna portante viene a mancare. Possono essere tanti i motivi: abbandono, grave malattia, morte, ma ognuno di questi fa nascere in noi l’esperienza del lutto.


Ogni essere umano affronta il dolore in maniera diversa, di conseguenza non bisogna ammirare chi lo fa andando avanti con la massima fiducia in sé e negli altri, o biasimare chi invece vuole chiudersi a riccio. Il rispetto va dato sempre, proprio perché in questi casi non esiste un giusto o sbagliato.

Vogliamo, però, far notare la consapevolezza di rendersi conto che si fa male agli altri per non soffrire, che si abbandona una parte di noi associata all’amore, alla purezza, perché ci mancano quei momenti.
È il realizzare il perché di un comportamento che non ci fa perdere nei meandri del buio.

Non è, quindi, un dolore cieco, un dolore che intossica; è un dolore di purificazione. Facciamo un esempio: immaginiamo di avere una ferita sanguinante sul braccio. Ignorarla vuol dire infettarla, fino ad arrivare al punto che potremmo perdere l’arto. Curarla, però, vuol dire disinfettarla e questo può far più male che ignorarla, ma ci stiamo avviando alla sua guarigione.

Ma che ne sai se sono stato amato
e se il mio cuore è stato calpestato?

Ma che ne sai di quanto ha fatto male
vedere la tua barca senza vele?

La rabbia crescente all’inizio del brano è proprio l’inizio del processo di ripresa, sfociato nella tempesta di poco prima.
Adesso stiamo in preda alle lacrime, arresi alla sofferenza. Non possiamo cambiare ciò che è stato, e in un certo senso va più che bene così. Ci siamo forgiati, siamo ora in grado di fare pace col passato vivendo il presente con i suoi insegnamenti.
Difatti immaginiamo la scena di una persona in ginocchio, a capo chino, che sì continua a piangere, ma che si sente riappropriarsi della sua anima, chiedendo e ricevendo perdono per potere andare avanti.

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