Noi di 4muses abbiamo un debole verso l’arte concettuale e per i significati che si insinuano nello stravagante. Vi ricordiamo, d’altronde, che uno di noi ha creato arte attraverso un ventilatore, e ci ha addirittura scritto un articolo accademico per spiegarlo analizzando alcune sfaccettature della realtà sociale contemporanea.
L’opera di cui invece tratteremo oggi è “Una e tre sedie” di Joseph Kosuth.
Di che si tratta? È un’installazione presentata al MoMA di New York.
A livello denotativo, osservando l’opera vedremo tre sedie. La prima sedia non è altro che una foto di una sedia, la seconda e l’oggetto che siamo soliti chiamare “sedia”, mentre la terza è invece un testo appeso al muro contenente la definizione di sedia dal vocabolario.
Sono letteralmente tre sedie. Tuttavia, sono di fatto tre oggetti completamente diversi nella forma e nella funzione.
L’opera è una riflessione sul senso del linguaggio e sulla costruzione della realtà.
Per spiegare meglio questo concetto, ci viene in soccorso il filosofo Edmund Husserl, che coniando il concetto di “mondo della vita” (lebenswelt) ha dato il via a una serie di studi che hanno dimostrato come la realtà che noi diamo per data e scontata sia in verità frutto di una negoziazione intersoggettiva.
Prendiamo l’esempio della sedia stessa: non è nemmeno un oggetto che esiste in natura, è stata creata come artefatto da utilizzare nella nostra vita quotidiana. Tutti noi che condividiamo lo stesso mondo sociale, attribuiamo un senso e una funzione a tale artificio, il cui scopo è indiscutibilmente uguale per tutti.
A nessuno verrebbe in mente di usare la sedia come cappello (e se lo si fa è una provocazione), come nessuno ogni volta che vede una sedia si chiede: “Cos’è questa cosa, a che serve?”. La sedia fa parte del “mondo della vita” che abbiamo imparato a conoscere e fatto nostro.
Nell’opera una e tre sedie vengono analizzate le modalità di attribuzione di senso al reale, viene destrutturato il banale. La sedia, come oggetto concreto, possiamo percepirlo nella sua fisicità, ma attraverso la visione della sua foto non è altro che un’idea, una copia del reale. La sedia in foto non appare diversa dalla sedia della realtà concreta, dato che vi è un’identificazione attraverso un'analogia visiva.
La definizione del dizionario, invece, ci mostra a un livello più estremo la capacità umana di giocare con l’astratto e con il simbolico.
La sedia reale non ha niente a che vedere con i simboli con cui la rappresentiamo: l’attribuzione del nome è una decisione collettiva, ma quel nome non è presente né nell’oggetto e né nella sua fruizione: non è toccando o usando una sedia che impariamo come viene identificata nell’universo sociale di appartenenza, con quali suoni e con quali simboli che evocano quei suoni. Sedia come parola pronunciata e sedia come parola scritta.
Da segnalare comunque che in epoca recente sono stati fabbricati dal comico Maccio Capatonda oggetti contenenti il loro stesso nome, come la nota “Tazza”, cioè una tazza con su scritto “TAZZA”.
In questo caso l’ilarità si crea proprio unendo l’oggetto concreto alla sua rappresentazione simbolica.
Questa tazza, seppur non costituisca arte, basa la propria ironia su principi analoghi rinvenibili nell’opera “Una e tre sedie”.
È la riflessione sul dato per scontato e sul linguaggio di tutti i giorni, riflessione forse mossa inizialmente con l’opera “il tradimento delle immagini” di René Magritte. E forse Kosuth per creare la sua installazione si è ispirato proprio dall’opera di Magritte.
Ma alla fine di tutto ciò per fortuna non dobbiamo scrivere il nome sui nostri oggetti per riconoscerli.
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