Vi ricordate quando abbiamo parlato del concetto di musica? Bene, questo brano riprende il senso di fondo di quell’articolo. E forse questa è la canzone più insolita ed estrema che potremmo mai trattare.
4'33'' è un brano composto da John Cage nel 1952, ed è costituita da tre parti: la prima dura trenta secondi, la seconda due minuti e ventitré secondi, la terza un minuto e quaranta secondi. Sommando il tempo d’esecuzione delle singole parti, risulta un totale di quattro minuti e trentatré secondi. L’opera, dunque, prende il titolo dal proprio tempo d’esecuzione.
Perché anche se fin qui sembra tutto normale, non abbiamo ancora detto la cosa più importante: in 4′33″ viene suonato il silenzio. Letteralmente, durante l’esecuzione John Cage si siede davanti al piano e in assoluto silenzio osserva il cronometro per scandire le singole parti dell’opera.
Si cerca di significare l’insignificante, di attribuire senso a esperienze apparentemente vuote. In questo brano affiora la capacità e il bisogno della ricerca di un senso, caratteristica comune agli umani.
Il silenzio non è solo vuoto, e il vuoto non implica l’assenza di significato. Il silenzio presente in quei quattro minuti e trentatré secondi, prima o poi lo passiamo tutti.
Ognuno di noi vive il silenzio in maniera intima e personale, proprio come l’ascolto di un brano. E può avere qualsiasi forma, come un foglio bianco che attende il suo disegno. Può essere quel silenzio di quiete dopo una lunga giornata, può essere anche la pace che non riusciamo a trovare all’interno della nostra vita, e quel buio necessario per ritrovare la forza. E l’assenza di suono o rumore può anche essere quel silenzio che si staglia nei rapporti umani, l’assenza di quella voce a cui siamo stati quotidianamente abituati.
Può essere il terrore dello speaker radiofonico che deve limitare il più possibile il silenzio, ma può anche essere quel momento della liturgia eucaristica in cui si contemplano il corpo e il sangue di Cristo.
La verità è che il silenzio può inquietare tanto quanto può placare l’animo. Siamo noi a dargli un senso, a definirlo in base alla situazione. Il silenzio sarà pure un vuoto, ma è un vuoto colmo di qualunque cosa.
Immaginiamoci allora nella platea di un teatro. Sul palco è presente un pianoforte e un pianista si avvicina allo strumento proponendo al pubblico una cover di 4’33’’.
In molti forse non capiranno e riempiranno quel silenzio con le proprie perplessità, altri cercheranno di stare al gioco e durante l’esecuzione non faranno altro che sentire i suoni dei propri pensieri. Ci sarà forse, però, qualcuno che comprenderà e che vivrà quel silenzio come una rivelazione o semplicemente come un momento per allontanarsi dal caos quotidiano e avere quei quattro minuti e trentatré secondi di pace.
E chi in questo vuoto ci vede inquietudine, non è altro che spaventato dal proprio abisso interiore e non dal silenzio in sé. E forse tutti noi dovremmo imparare a gestire e padroneggiare questi vuoti, affinché il silenzio non faccia più paura.
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