Qui abbiamo un problema. Quindi, lettore, tieniti forte perché la delusione è dietro l’angolo. Siamo qui per parlare di Don’t worry darling, il film presentato fuori concorso a Venezia79. Capiamo perfettamente il perché fosse fuori concorso, esattamente come ha infiammato il carpet con la bolgia di ragazze che vi hanno passato la notte. Gli interpreti non hanno neanche bisogno di esser annunciati, sono super famosi e qualora non si conoscessero le polemiche che accompagnano questa pellicola hanno colmato il gap.
Cercheremo di non fare troppi spoiler sul film, così che possiate godervene la visione. Ma, ci teniamo a dirlo, la tematica trattata non è delle più innovative e per tanto l’andamento degli eventi è abbastanza comprensibile fin da i primi istanti. Il trailer è molto più intrigante e molto più “complesso” della pellicola stessa, perché fa intendere allo spettatore una trattazione ben più intensa di quel che in realtà non sia.
Fin dai primi istanti, l’estetica e le decorazioni, ci fanno comprendere fin da subito i dettagli sulla realtà che stiamo osservando. L’occhio sugli stendardi, la forma del quartiere nel quale i protagonisti vivono, le vite tutte uguali e al routine così tanto scandita, danno un senso di controllo quasi orwelliano. Siamo in un vero e proprio Panopticon, un punto nel quale tutti possono guardare tutti; un’ideale decisamente americano. Tutti possono controllare tutti, i vicini sono intimamente uniti da qualcosa che non è chiaro fin da i primi istanti.
Quasi come se ci trovassimo all’interno degli anni ’50, le donne restano a casa e gli uomini vanno a lavoro. Loro, protette nella loro casetta di cristallo, svolgono le mansioni quotidiane in attesa del ritorno del loro lui. In questa prospettiva, noi assumiamo e seguiamo il punto di vista di Alice (Florence Pugh) che sembra esser schiacciata dalla realtà che sta vivendo, quasi come se si stesse svegliando da un incubo.
Il tutto, rapidamente, senza eccedere con le anticipazioni sulla trama, diviene una metafora delle relazioni abusive. Quando si è chiusi all’interno di una storia di violenza psicologica ci si ritrova a giustificare il più delle volte il proprio aguzzino. Non è necessario elencare ciò che avviene nel film per poter comprendere ciò che Olivia Wilde ha voluto traslare sullo schermo. Per quanto, infatti, ad agire apparentemente siano gli uomini. Se da una parte, infatti, gli uomini vanno a lavorare e le donne restano a casa; in realtà, sono loro le vere protagoniste. Donne distrutte, segregate, rinchiuse in amori rotti.
Ma per quanto possa essere apprezzabile questa metafora, il modo con cui è trattata è decisamente acerbo. Questo film risente molto del fatto che sia un’opera prima dal punto di vista registico. La Wilde non riesce a dare originalità a una tematica già abbondantemente trattata. Al contrario la interseca con altri argomenti rendendola ancora più scontata agli occhi dello spettatore. Non è necessario conoscere Orwell, basta aver visto una o due puntate di Black Mirror per comprendere dove questo dramma voglia andare a parare.
Dell’intera pellicola non possiamo fare a meno di salvare gli interpreti. Al di là delle diatribe dietro le quinte, infatti, la scelta di Florence è la più giusta. Lei è dannatamente perfetta per la parte, nella quale si inserisce fisicamente. Convincente persino Harry Styles, soprattutto negli istanti in cui mostra vera rabbia.
È un film dilettevole Don’t Worry Darling, ma senza il cast e l’hype che si è creato alle sue spalle sarebbe sicuramente passato in sordina.
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