Attenzione: il racconto è da considerarsi una fan-fiction a tema McLennon. Ciò che qui è scritto è frutto della fantasia dell’autrice e non ha niente a che vedere con la realtà dei fatti. (Forse, chissà.) No, seriamente, non ha nulla a che vedere con la realtà dei fatti. (Per quanto ne possiamo sapere…) Vabbè, per questioni legali, ripetiamolo insieme: non ha nulla a che vedere con la realtà dei fatti.
“What about the night we cried
(cosa dire della notte in cui abbiamo pianto)
because there wasn’t any reason left to keep it all inside?
(perché non c’era più nessun motivo per tenere tutto dentro?)”
-Here Today, Paul McCartney
India, febbraio 1968.
Il ritiro spirituale con il Maharishi Mahesh non era come se lo era effettivamente immaginato. Non che avesse chissà quali aspettative, dopo una chiacchierata con George tutto quello che aveva pensato e detto era un: “Dai, proviamo”. È vero che riusciva a capire le persone con uno sguardo, ma preferiva dare giudizi dopo aver vissuto certe esperienze, o conosciuto determinate persone. John non era uno di quegli inglesi snob, anche perché di inglese aveva poco e niente, essendo cresciuto a Liverpool. Non amava rimanere saldo nelle sue convinzioni, ben consapevole che le idee erano solo idee, stati eterei che potevano cambiare in qualsiasi istante. In una piccola parte di sé, però, pensava che il ritiro fosse più una vacanza, una sorta di trip da LSD, ma senza l’LSD. Quanto si sbagliava. La meditazione era un vero e proprio processo di morte del proprio ego. Faceva male, cazzo se faceva male.
“Non ti preoccupare, fa male anche quando nasciamo, è tutto parte del nostro sviluppo interiore.” Gli aveva detto poco fa George. Sorrise, era il più piccolo tra di loro ma sicuramente il più saggio. A volte, però, davanti a lui si sentiva un po’ a disagio, possibile che George non patisse quella sofferenza? Una vera e propria lacerazione della propria identità a lui sembrava non suscitare alcun disagio o malessere interiore. “O è bravo a nascondere le emozioni, è un folle.” Lo pensava in modo bonario, per George si sentiva un vero e proprio fratello maggiore.
Guardò il sole basso sull’orizzonte, in procinto di ritirarsi solo per qualche ora. Respirò a pieni polmoni, riprendendo la via verso il bungalow. Le passeggiate pomeridiane assieme alla meditazione di chiusura, lo aiutavano a liberarsi sia dalle tossine, che da tutto ciò che pensava di essere. Stava lì solo da due settimane, sapeva che prima o poi avrebbe dovuto affrontare il grande problema, quell’oceano di emozioni represse da dieci anni.
Si accorse di stare sorridendo da un po’ quando da dietro le alte piante vide il bungalow che condivideva con Paul. Assaporò quell’aria di normalità che avrebbe voluto tanto portare anche nel Vecchio Continente. Lui che tornava a casa per trovarci Paul. Pensiero un po’ assurdo, visto che lavoravano comunque insieme, ma tanto bastava per fargli capire ancora meglio cosa provasse per lui, per entrare dentro quel sentimento che solo in India aveva trovato la sua maturità. La neo-libertà di esprimere il loro essere in modo totalizzante, le lunghe notti passate insieme a comporre, avevano dato origine a bozze di testi che sembravano non appartenere a loro, per quanto fossero diverse dal passato. Fosse per lui, il biglietto di ritorno per Londra non esisterebbe…
Aprì la porta, sospirò sollevato quando lo vide sul letto, il volto puntato al soffitto. In penombra si accorse che aveva gli occhi aperti, eppure era come se John non fosse mai entrato. Non lo aveva sentito, o lo stava ignorando? Nella stanza aleggiava l’odore acre del fumo di una sigaretta finita ma mai spenta.
John era stanco, avrebbe voluto solo dormire, ma qualcosa gli diceva che non era il momento, doveva rimanere sveglio e attendere. Probabilmente era l’ispirazione, l’eterea Musa che stava bussando alla sua mente per potersi esprimere tramite di lui. John prese la chitarra, un gesto impulsivo, cominciò a suonare qualcosa, non c’era un senso, non erano accordi conosciuti, era tutto a caso.
Sentiti i primi accordi, Paul si mise seduto, guardando John che di rimando gli sorrise malizioso, annuendo con la testa al ritmo della musica. John aveva capito che c’era qualcosa che l’altro aveva da dirgli e il suo linguaggio del corpo gli stava comunicando che era pronto a qualsiasi cosa gli chiedesse. Suonare, fare l’amore, parlare… gli andava bene tutto.
«Pensi mai a tua madre?» la domanda di Paul lo colpì dritto al petto. John smise di suonare, la mano rigida, così come tutto il corpo. Certo che pensava a sua madre, ma non si permetteva di ammetterlo a se stesso, figuriamoci farlo sapere a qualcuno.
«Ci penso spesso, sai.» Paul continuò a parlare, senza aspettare una risposta di John che tanto non sarebbe arrivata. «Penso che magari tutto sarebbe diverso, penso che mi mancano i suoi consigli, anche il suo profumo.» la voce di Paul si incrinò, obbligandolo a fermarsi.
Il respiro di John si fece più agitato, il fardello che aveva dentro premeva per liberarsi, spaccava le ossa, calciava le interiora, ma John rimaneva serrato, come sempre. Non si meritava di sentirsi più leggero, non era degno di andare oltre, di maturare, di vivere al meglio la sua vita senza il pensiero opprimente di sua madre. La mancanza di Julia era diventata una presenza pesante, una zavorra legata ai suoi piedi. Dovunque lui andasse, la Julia che si era creato andava con lui; qualunque cosa volesse fare, la Julia che si era creato faceva in modo che si tenesse, che non andasse del tutto a compimento. La Julia creata doveva essere un ostacolo alla serenità perché la serenità lui l’aveva seppellita quel 15 luglio 1958.
John si chiedeva come facesse, lui che dalla morte di Julia si era chiuso in una fortezza fatta di silenzio così assordante che nessuno attorno a lui aveva mai avuto il coraggio di tirare fuori l’argomento.
«Sì che ci penso.» John teneva gli occhi bassi, alzando lo sguardo verso Paul solo per un istante, ricercando un sostegno. «Ma non per molto, non posso cambiare le cose».
«Vorresti?»
John annuì solamente, mentre delle lacrime cominciavano a scorrere sui entrambi i volti. Complici le ore passate in meditazione, nessuno dei due le cacciò indietro, le fecero fluire, come torrenti in piena.
“E fanculo all’educazione del Regno Unito di tenersi tutto dentro, di reprimere ogni tipo di emozione perché ritenuta volgare. Bastano due settimane in oriente e si diventa il più drammatico degli uomini”. John sorrise a quel pensiero, sentendosi stranamente più forte.
Aveva passato l’intera vita, fin dall’infanzia, a costruirsi la maschera del duro, di quello che poteva ottenere tutto da un semplice comando. Il leader che tutti seguivano, a cui ognuno dava la responsabilità delle proprie azioni: “L’ho fatto perché me lo ha detto Lennon”, eppure questo non aveva fatto altro che aumentare la sua fragilità.
«Vorrei dirle quanto la amo. Non l’ho mai fatto. Lei me lo ripeteva sempre, ma io non gliel’ho mai detto.» John tirò su gli occhiali che con le lacrime si stavano appannando. Si asciugò gli occhi con il palmo della mano, di fretta. Un gesto puramente spontaneo, in lui non c’era nessuna voglia di farla finita col pianto.
«Non so cosa pensava quando mi vedeva, se questo le pesava. A volte penso di essere diventato un artista solo per farla contenta.» John si accese una sigaretta, per placare la tensione. Le lacrime smisero di scorrere seccandosi in breve tempo sul volto.
«Penso che mia madre mi osservi, a volte la sento.» Paul stava fissando un punto imprecisato, forse era lì che credeva ci fosse lo spirito di Mary. «So che è orgogliosa di me, del gruppo, di ciò che facciamo. Sognava di vedermi suonare, sapeva sarebbe stata la mia strada.»
John si avvicinò a lui, offrendogli gli ultimi tiri rimasti, sentiva sarebbe arrivato presto uno di quei ma alla Paul. “Tutto molto bello, mi piace questo, ma…”. Per George e Ringo quei ma erano terribili, per John, invece, erano uno dei motivi per cui lo amava così tanto.
«Solo che non faccio altro che chiedermi: cosa pensa di noi due?»
Non c’era nulla di sbagliato in quello che provavano e facevano, lo sapevano molto bene. O almeno, ne avevano parlato così tanto, fino allo sfinimento, che era inutile continuare a negarsi la loro relazione. Era iniziata ad Amburgo e per quanto avessero provato a rimanere distanti, non c’erano mai riusciti. Era davvero così sbagliato amare un uomo? Erano arrivati alla conclusione che l’amore non era mai sbagliato e se questo gli altri non lo capivano, erano affari loro.
La domanda appena fatta, però, apparteneva al Paul quattordicenne rimasto orfano da poco.
«Non penso sia tanto importante.» Paul si voltò verso John, che avvicinò la fronte a quella del compagno, toccandola. «Insomma, quale di una sua eventuale risposta ti farebbe cambiare idea su di me?»
John gli sfiorò le labbra, in attesa che Paul gli desse un bacio. «E poi non è così male la fantasia della mammina che ci guarda.»
I due si misero a ridere, poi Paul gli passò una mano tra i capelli e lo baciò.
«Ti...»
«Lo so.» Lo interruppe John, prima di sentirselo dire. «Anch’io».
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