Per quei cinque ragazzi Liverpool cominciava a essere lontana mentalmente quanto fisicamente. La leggerezza e l’impulsività con cui affrontavano le giornate tedesche erano tipiche di una generazione che non era tenuta a fare i conti con lo spettro di una guerra imminente.
Gli anni Cinquanta si erano conclusi con la promessa di una libertà finalmente ritrovata: i ricordi del razionamento sbiadivano assieme a quelli dei crampi per la fame, i bambini di quel decennio non portavano più il nome Winston e quelli del decennio precedente, arrivati al momento dell’affaccio nel mondo adulto dopo un’adolescenza come le altre, si ripetevano in una muta preghiera che mai sarebbero diventati come i loro genitori, rei di aver trascinato il mondo intero in una guerra vergognosa e sanguinaria.
Non sono mai esistiti veri vincitori nei trattati di pace: al di fuori dei tavoli politici, con i loro giochi di potere e richieste assassine, le persone hanno sempre arrancato, inglesi e tedeschi in egual misura, vittime fratricide nella Prima Guerra Mondiale e vittime della follia di un leader sottovalutato nella Seconda.
Per loro cinque la guerra era solo un discorso da grandi, un accento più marcato e ubriaco proveniente dall’altro capo dell’oceano, una fonte di nuove conoscenze, soprattutto dal punto di vista musicale. Nonostante questa presenza in sordina, però, nel gioco del “chissà se…” tutto ruotava attorno lei, la grande protagonista assoluta. E proprio come ogni persona, soprattutto in Europa, anche loro cinque si chiedevano quanto sarebbe stata diversa la propria vita senza quel conflitto di mezzo.
Chissà se il padre di John se ne sarebbe andato dopo la sua nascita se non ci fosse stata la guerra. Se fosse rimasto avrebbe saputo tenere testa a Juli? Se il padre fosse rimasto, lui non avrebbe avuto le due sorellastre, ma Julia, forse, sarebbe ancora viva. Sarebbe andato avanti con il suo gruppo musicale o avrebbe mollato? Se avesse dato retta alla madre sicuramente Amburgo farebbe lo stesso parte del piano, ma cosa dire di Alfred, il padre? Anche lui era un musicista, o comunque così aveva sentito dire dalla zia Mimi, ma lo avrebbe supportato quanto la madre?
Senza la guerra lui sarebbe davvero cresciuto con due genitori? Avrebbe sentito il bisogno di evadere con la mente, inoltrandosi nella tana del Bianconiglio alla ricerca di chissà quale verità che gli spiegasse, confortandolo, il male subito?
A quasi vent’anni John stava già sbattendo la testa contro uno dei grandi muri della vita. La sera precedente si sentiva un dio, un essere supremo che aveva gli occhi puntati addosso in quel minuscolo palco di quel locale sporco e puzzolente. Alla timida luce del mattino, resa ancora più discreta dalla misera dimensione della finestra, si sentiva come impotente, un burattino nelle mani di un destino incontrollabile per chiunque.
Continuava a tenere gli occhi chiusi, nel rituale mattutino del dover placare quel mostro nero della sua negatività. A lui non era concesso avere dubbi sulla band, lui l’aveva creata, lui aveva fatto in modo che fossero tutti arrivati fino a lì, lui era il leader… lui, e Paul.
La mano sinistra si mosse rapida dietro di lui, comandata inconsciamente dal proprio cervello dopo aver pensato a Paul. Tastando le coperte, però, John si accorse di stare solo in quell’unione di letti singoli.
Grande idea quella di essersi accaparrati la camera doppia, con la scusa di dover scrivere e suonare insieme. Certo, c’era anche il lavoro nelle mattine tedesche, ma sempre dopo una buona dose di amore e passione, ovviamente del tutto segreta agli occhi degli altri.
Non era comunque la prima volta che John si svegliava senza Paul; a volte quest’ultimo si sentiva così in colpa per quello che provava, come se amare un uomo lo rendesse meno uomo, che doveva avere il tempo necessario per scrollare e ricacciare i pensieri ossessivi. John lo lasciava fare, perché questo aiutava il loro rapporto: alla fine, infatti, l’amore che Paul provava nei confronti di John vinceva sul proprio orgoglio e solitamente tornava con una melodia o un verso d’amore che erano sicuri sarebbe valso loro, prima o poi, il primo posto nelle classifiche inglesi.
Con dei movimenti lenti e ancora del tutto assonnati, John decise che era ora di alzarsi e buttarsi velocemente in doccia, sperando non ci fosse abbastanza fila. Ogni sera, dopo i concerti, tornava in stanza e si addormentava appena toccava il letto, spesso anche con i vestiti. Per quanto stanco fosse, però, riusciva a pensarsi all’interno di una vasca nel suo bagno personale in una suite d’albergo extra lusso.
Sorrise alla vista del corridoio libero, ma quando mise piede nel freddo pavimento del bagno capì che la speranza di avere un po’ d’acqua calda doveva essere morta circa tre ore prima, alle otto del mattino.
Anche John e Paul dovevano unirsi a tali rituali, per non rischiare di far nascere dubbi. Per i due, però, era un gioco eccitante, senza alcun tipo di gelosia, al contrario. Si sentivano fieri nel constatare che l’altro attirava l’interesse femminile. Doveva essere lampante per chiunque gli ascoltasse che loro erano i leader dei Beatles e per questo le fanciulle non rimanevano troppo risentite quando loro declinavano gli inviti con la scusa che si sarebbero dovuti mettere a lavorare su qualcosa di nuovo.
Ed era proprio con questa scusa che Paul, arrivato correndo nella hall di quella specie di albergo/tugurio, aveva chiesto a John di seguirlo in camera.
«Vuoi fare una canzone su due gay? Sicuro? Vuoi forse far morire la Regina?» John sorrise ironico, l’idea che così facendo la Regina avrebbe saputo della sua esistenza lo fece eccitare non poco.
«Naturalmente parleremo al femminile, o anche no. Sai cosa? No, non mettiamo nulla, femminile, maschile. Nulla. Voglio scrivere di noi due.»
«Ok. Hai qualche idea?» John si mise sul letto, ben consapevole che quelli erano i pensieri in quarta di Paul e che non sempre trovavano la via della realizzazione.
«In realtà ci sto pensando da un bel po’, dai Quarrymen.»
«Da secoli, direi.»
«Ascolta.»
Paul imbracciò la chitarra e alla vista del legno che quasi sfiorava il petto nudo, John ebbe un sussulto.
«Ho i primi versi.» Paul cominciò a suonare con un ritmo lento, incerto, era palese avesse lavorato solo sul testo e non sulla melodia. Preso da questa considerazione, John si alzò per prendere la sua chitarra, ritornando seduto davanti a lui. Nella loro posizione preferita: come fossero uno lo specchio dell’altro.
«Dimmi i versi, ti guido io.» il tono di John era dolce, lo sguardo così profondo che Paul balbettò un “ok” e cominciò a cantare, leggermente rosso in viso.
“Two of us riding nowhere
spending someone’s hard-earned pay.
You and me, Sunday driving
not arriving, on our way back home”
John fermò le sue mani, con un brusco colpo alla chitarra.
«Che c’è? Non va bene?»
«Lo capiranno.»
«Da cosa si potrebbe capi…»
«Non gli altri, chi ci conosce dico, lo capiranno.»
«Oh sì. Ho pensato proprio a questo.» Paul posò la chitarra a terra, con il manico poggiato al muro. John invece, rimase come prima, continuando con la sua melodia istintiva. «Le serate qui ad Amburgo mi hanno fatto pensare che se vogliamo continuare con la musica non potremmo mentire a lungo, non agli altri della band, almeno. E poi ho ripensato alle parole dell’altra sera.»
Non era il caso di specificare quale sera, entrambi la ricordavano ancora bene: avevano litigato sempre per questioni d’orgoglio. John non era mai stato interessato a un’apparenza di genere. Fare il gradasso gli riusciva bene fin da bambino, ma era una maschera per non affrontare le sfide che la vita gli aveva dato dal momento della nascita. In uno dei suoi tanti “chissà se…” c’era anche la questione della sua nascita.
Nacque alle sette del mattino del 9 ottobre 1940, in pieno bombardamento aereo da parte dei tedeschi sulla città di Liverpool. Il destino volle che l’ospedale rimase intatto, quindi né lui, né la madre subirono gravi danni fisici, eppure, chissà se quella paura della distruzione gli era rimasta dentro ogni giorno della sua vita.
Il suo primo vagito aveva il sapore della vita che può finire da un momento all’altro; dai primi istanti, quindi, aveva compreso quanto fosse fondamentale fregarsene perché sì: tutto poteva finire da un momento all’altro e la vita lo ricordava costantemente, se prestava ascolto.
Per Paul, invece, era diverso. Lui non aveva vissuto i bombardamenti, essendo di due anni più giovane. Aveva sempre avuto una famiglia tradizionale, unita, che lo supportava. Anche lui era orfano di madre, ma l’aveva persa dopo una lunga e dolorosa malattia, un’agonia che doveva averlo portato a pensare: “Ora sta in un posto migliore”. Julia era morta investita. A ucciderla un poliziotto ubriaco. John era la sostanza di una vita che nascondeva le apparenze con cui era cresciuto Paul.
John annuì, al contrario di Paul non gli servivano tante parole per esprimere i propri concetti. Posò la chitarra sul letto, poi si sporse verso Paul quel tanto che bastava per baciarlo dolcemente sulle labbra. Il resto della canzone poteva attendere un altro po’.
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