Dal 5 aprile, su Disney+, è arrivata la serie tv “The good mothers”, premiata alla prima edizione del premio per le serie tv al Festival di Berlino. Gli eventi narrati sono tratti dalla storia vera di Lea Garofalo raccontata attraverso la penna e le indagini di Alex Perry, scrittore e giornalista statunitense. Donne che, attraverso la propria ricerca di libertà, hanno sfidato una fitta rete sociale criminale: l’Ndrangheta.
La storia è affrontata dal punto di vista di sei donne diverse, ma simili, con passati comuni e destini affini. Siamo nel 2009 quando Lea Garofalo scompare e sua figlia, Denise Cosco, deve imparare a lottare per se stessa e per la giustizia di sua madre.
Nel corso delle sue sei puntate, in pieno stile crime, veniamo a conoscenza della storia che caratterizza le donne protagoniste. Quello che abbiamo modo di vedere è, in certo qual senso, il ricordo di quella che viene considerata una delle prime vittime di mafia. Lea Garofalo si era costituita come testimone di giustizia, confessando i crimini della propria famiglia così come quelli della famiglia del suo ex-marito.
Un argomento, quindi, già trattato all’interno del nostro immaginario (e non solo), ma che qui viene connotato da un punto di vista nuovo. La direzione di Julian Jarrold e Elisa Amoruso, infatti, ha voluto sottolineare la prospettiva femminile mettendo in evidenza quanto ingabbiate siano state le donne protagonista di questa storia. L’obiettivo era quello di indagare un’intimità rimasta, troppo spesso, sepolta sotto lo sguardo maschile. Il crime, difatti, ha sempre evidenziato la violenza e ne ha esaltato i suoi aspetti elevando quasi a eroi individui che in tutto e per tutto sono, in realtà, dei criminali.
La Calabria, attraverso le cupe atmosfere che sono state ricostruite, si mostra sempre più legata al sangue e alla famiglia. Il che potrebbe quasi suonare come un ossimoro, vista la considerazione delle donne che viene da sempre perpetrata. Le sorelle, le mogli, le madri e le figlie che restano legate e segregate all’interno del focolare domestico tanto da dover tenere sempre la lingua a freno e i propri sentimenti da parte. Un sistema che si consolida e si stringe intorno a quei legami che dovrebbero essere basilari, ma che in realtà si riversano in tutta la loro possessione e il loro controllo. Lottare, dunque, diviene l’unico modo per poter uscire da un sistema che corrode la donna fino a ridurla al niente. Minacce di morte che si contrappongono all’idea che almeno i propri figli non siano destinati a procreare o a prendere una pistola in mano fin dalla più tenera età.
Julian Jarrold ha dichiarato, durante la conferenza stampa: “Attraverso lo script di Stephen Butchard mi sono reso conto di quanto potente fosse questa organizzazione, non soltanto al sud, ma da per tutto, e anche il fatto che avessero queste strutture familiari, sociali veramente molto arcaiche e soprattutto la storia di queste donne che sono riuscite a sfuggirvi. La storia è assolutamente drammatica e vivida, pensavo che saremmo stati in grado di coglierne l’autenticità e che avrebbe funzionato molto bene come serie. Tanti film e serie tv hanno trattato la criminalità organizzata sotto il punto di vista maschile, così, veniva esaltata la violenza fisica. Qui la violenza è nascosta e si cerca di catturare una costante tensione strisciante. Cogliere il modo di agire di queste donne, di pensare, era fondamentale”.
La piattaforma di streaming, addentrandosi nelle tematiche più adulte, aggiunge un prodotto che potremmo definire di punta. Si respirano dei tratti quasi noir, proprio perché si vuol lasciare sotto pelle le sensazioni di disgusto e di pericolo con le quali le protagoniste sono costrette a vivere. Un mondo che scandaglia il rapporto con uomini assassini e che, nonostante sembri lontano secoli, in realtà, è dietro l’angolo. La fiction, in questo modo, beneficia di una storia reale pronta a far riflettere sulla forza necessaria per poter riuscire a vincere contro la violenza psicologica, ancor prima che fisica. Non va, infatti, dimenticato che la lotta è intestina perché si è davanti la scelta di tagliare col proprio passato tradendo chi si amava.
Micaela Ramazzotti (Lea Garofalo) ha dichiarato che: “Lei ce l’ha messa tutta per poter scappare, ma in qualche modo ha dato forza e coraggio a sua figlia per poter testimoniare contro suo padre. Il cinema ci fa ridere, ci fa piangere, ci fa emozionare, questa serie spero che in qualche modo possa dare il coraggio di ribellarsi a certi ambienti feroci in cui magari nascono, crescono e muoiono”. Perché sì, la rete sociale nella quale queste donne sono inserite le ingabbia all’interno del loro ruolo.
Come hanno titolato molti giornali: donne che hanno agito come un vero e proprio cavallo di troia. La PM Colace, del resto, ha saputo sfruttare la forza che la maternità ha infuso a queste protagoniste per poter permettere loro di riscrivere la loro storia.
The good mothers è, dunque, il titolo perfetto per questa narrazione. Madri che trovano la forza di agire e di reagire a un sistema corrotto che le ha annullate in quanto individui.
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