Arriva quel momento del presente in cui ci si sente soffocare nonostante vada tutto bene. Tutto, in un certo senso, è come lo vogliamo. Però non ci va ancora bene. Che parola strana il “volere”, soprattutto per una creatura volubile come l’essere umano. È che sentimento strano l’insoddisfazione, specialmente se questa è totalmente accerchiata dalla soddisfazione. Eppure qualcosa non quadra.
Allora arriva l’asfissia di un pensiero travolgente, perverso e spaventoso. Arriva il momento di rinunciare a noi stessi, o quantomeno ad alcune matrici comportamentali a cui siamo gelosamente ancorati.
E badate bene che di per sé non è qualcosa di negativo. Semmai è negativo nei riguardi di una struttura d’integrità individuale che fittizia si è imposta costruendo le nostre identità.
E ora diviene più chiaro il passo, il salto nel vuoto. Sarei ancora io se non fossi più io? E se non avessi più ciò che mi permette più di ogni altra cosa di identificarmi in me stesso?
È molto meno drammatico di quanto sembri. Anzi. È una liberazione.
Ci vuole coraggio a comprenderlo: la rinuncia di noi stessi è forse l'atto più estremo per trovarci.
Sarà un mondo nuovo, un nuovo modo di vivere e di lasciarci andare. Una cascata di possibilità che prima non avevamo mai visto. Catene perdute di cui non si sente mancanza alcuna.
Sarà così quando non avremo più bisogno di noi stessi, forse perché non ne abbiamo mai avuto davvero bisogno.
“Ho corso dall’altra parte del mondo,
ma sono rimasto nello stesso posto…
l’esistenza terrena diviene sfondo
delle domande a cui l’universo ha risposto”
- Gianluca Boncaldo, “Risposto”
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