Ci sono quei film che si iniziano un po’ per curiosità, magari si viene colpiti dal titolo, oppure è la locandina a far presa su di noi, ed è proprio per tale ragione che abbiamo iniziato la visione di questa pellicola. Il titolo è evocativo: Sto pensando di finirla qui, un pensiero che molto spesso si fa strada dentro di noi che ci piaccia o meno. Questa pellicola è arrivata sulla piattaforma di Netflix nel 2020 e, in breve tempo, ha raccolto pareri discordanti da parte della critica. Noi collochiamo questo film nei nostri Must To Watch perché ci ha suscitato così tanto interesse da averci spinto a una doppia visione e anche all’acquisto del romanzo da cui è tratto.
Come ogni horror psicologico che si rispetti, il macabro non è manifesto ma è un sottile strato che si inserisce tra la realtà tangibile e quella intangibile. Il film è una lenta progressione, all’inizio anche un po’ confusa perché non tutto deve essere immediatamente chiarito. Bisogna dare la giusta attenzione a ogni singola parola e a ogni singolo elemento messo in scena. È necessario prendersi del tempo per potersi intercalare al meglio all’interno di questa narrazione perché l’analisi del testo non è immediata e il suo significato è quasi poetico e ben nascosto.
Le prime scene destano un senso di smarrimento: la voce di Lucy, interpretata da Jessie Buckley, ci introduce in modo lento e monotonale all’interno del flusso dei suoi pensieri. Quasi come se stesse realmente leggendo un libro e non stesse confessando una propria interiorità. Il viaggio che intraprende con il suo ragazzo si muove sulla stessa corda: lei continua a pensare di finirla qui e per un breve istante Jake sembra avvertire quel pensiero. Ma da ciò si innesca la loro conversazione e da quel momento in poi i due iniziano a discutere di fisica, poesia e letteratura. Una conversazione che potrebbe sembrare abbastanza lenta, per quanto stimolante, ma che sembra nascondere qualcosa di più profondo al quale lo spettatore non può ancora accedere.
A un certo punto Jake nomina un poema omonimo alla donna che ha al suo fianco: una certa Lucy morta giovane, nel quale la figura della donna viene inquadrata secondo le idee che l’autore stesso aveva. Elemento che assumerà un significato completamente differente nel momento in cui si conclude la visione, visto che è facile pensare che Lucy sia frutto dello stesso Jake e che le scene successive fossero solo frutto di quell’ideale pre-costruito. Lucy appare stanca, ma non si conosce la natura di questo stato d’animo: se sia la vita stessa a stancarla o la relazione che sta vivendo con Jake. Si pone dei dubbi, si interroga e non trova risposte, come se appunto lei provenisse dal niente e dal tutto allo stesso tempo. Dà delle risposte, durante la conversazione, che sembrano essere ciò che Jake vuol sentirsi dire. Lui, imbarazzato, solo, solitario e cupo; chiuso in se stesso, nel suo mondo, nel suo viaggio.
Il tempo della narrazione si sovrappone di continuo, non siamo altro che punti fermi che vengono attraversati dal suo scorrere. Per tale ragione è quasi necessario vedere almeno due volte questo film. La seconda visione, infatti, verrà connotata da una nuova consapevolezza che altrimenti verrebbe perduta e archiviata. Quando, per una volta, non esiste un film che è semplicemente da consumare e buttare, forse vale la pena concentrarci qualche ora in più per poterne cogliere i veri aspetti. Anche perché il cast è brillante e vi farà amare e odiare ogni singolo personaggio.
Conoscendo la fine si può inquadrare il tutto sotto una differente chiave di lettura. In questo senso di lentezza si è aggiunto anche il senso di disaggio, dato anche dalla performance attoriale di Jesse Plemons che per me resta sempre e comunque il personaggio viscido interpretato in Black Mirror. Il disagio diventa parte dello spettatore.
Non vogliamo scendere in ulteriori dettagli sulla nostra analisi per evitarvi troppi spoiler, però vorremmo sottolineare la bellezza della scrittura del personaggio di Lucy. Lei, nonostante sia figlia del rimpianto di un uomo giunto al termine della sua vita, è la rappresentazione di una meravigliosa complessità mentale. I pensieri suicidi, infatti, vengono avvalorati dal modo con cui lei stessa descrive i suoi sentimenti e soprattutto la sua apatia. Vive e non vive. Guarda e osserva, ma allo stesso tempo è distaccata da quella stessa visione. Attraverso di lei si parla di consenso, di volontà, di responsabilità e di aspettative. Si parla di tutti quei concetti che per anni hanno e continuano ad accendere le donne.
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