Pubblicate le nomination per gli Oscar 2022, parliamo di uno degli esclusi dalla categoria “miglior film”: Babylon, nelle sale italiane dallo scorso 19 gennaio. La nuova pellicola di Damien Chazelle, dopo essersi accaparrata ben cinque nomination ai Golden Globe (portandosi a casa il premio per la migliore colonna sonora originale), per l’Academy è stato candidato alla Migliore Scenografia e Migliori Costumi passando in sordina in tantissime categorie. Ma vediamo insieme cosa non convince di questo film e cosa invece ci ha convinti.
Siamo nella Hollywood del 1927, non un anno casuale per la storia del cinema. Il messicano Manuel Torres (Diego Calva) lavora come tuttofare al servizio di una delle Major cinematografiche dell’epoca, il suo sogno è quello di riuscire a lavorare direttamente sul set. Dopo esser riuscito a trasportare l’attrazione principale di un grande party a base di coca e sesso, incontra la bella Nelly LeRoy (Margot Robbie), donna che ambisce a diventare la grande star che crede già di essere. Star si nasce, non si diventa.
Un incidente quasi mortale per un altra attrice, durante i festeggiamenti, le fa casualmente valere una parte all’interno di una pellicola muta. Durante la sua grande occasione, quindi, la ragazza dimostra il suo talento e la sua capacità di piangere a comando anche con una sola lacrima. Parallelamente, lo stesso Manuel riesce a lavorare sul set di un film come runner. La loro scalata, quindi, inizia in maniera parallela cosa che li porterà a incontrarsi più avanti man mano che il talento di entrambi inizia a esplodere.
Ma come dicevamo, il 1927 segna un anno di passaggio fondamentale per il cinema: la nascita del sonoro. L’uscita in sala del “Cantante di Jazz”, infatti, ha segnato il tramonto di molte star del muto perché, con la loro voce, non riuscivano ad avere lo stesso appeal che avevano posseduto in precedenza. Questa è la storia di un’arte che, attraverso le sue innovazioni, ha reso immortali e mortali tantissimi dei suoi operatori. Un’arte complessa, dapprima considerata minore, ma che via via ha affascinato milioni di spettatori con la sua grande magia.
Se da una parte Hollywood iniziava a innovarsi, dall’altra il bigottismo e la moralità segnavano il tracollo di molti vizi che, esposti alla luce del sole, non erano più accettati. Nelly stessa, così come il suo collega Jack Corrad (Brad Pitt), infatti, riescono a interrompere la loro sconsiderata vita privata restando nel vacuo limbo che l’assenza di notorietà porta con sé.
Non parliamo ulteriormente delle vicende che caratterizzano questa storia, per non perderci in altri possibili spoiler. Vogliamo, infatti, concentrarci su ciò che si può leggere tra le righe di questa Babilonia portata in scena da Chazelle. Il regista, già noto per le altre sue pellicole come Whiplash e La La Land, segna una grande linea di demarcazione tra odio e amore. Se, infatti, con La La Land aveva già messo a nudo la durezza con cui Hollywood molto spesso risponde ai giovani sognatori, adesso la morsa si stringe ancor di più. Damien soffoca la sua morsa intorno a tematiche quasi proibite, per il puritanesimo americano e per la tendenza del “nascondere la polvere sotto il tappeto” che tutt’oggi caratterizza la morale calvinista americana. Parla di droga, di alcol, di lussuria e di azioni immorali all’interno di quella fabbrica del sogno che per tanto tempo è stata caratterizzata dall’opulenza. Una grande Babilonia col suo schema quasi piramidale fatta di tante lingue, tanto quanto le culture che la caratterizzano. Non vi è una lingua unica, al contrario, ci sono milioni di linguaggi che si sono susseguiti e inseguiti nel corso degli anni. Non vi è un solo modo per fare film, non vi è una sola innovazione, non vi è una sola tecnologia. Una cacofonica orgia di emozioni e sentimenti che punta al fascio di luce di un proiettore.
Chazelle segna le date importanti della storia del cinema, ne fa un grande ripasso per tutti gli appassionati, ma ne evidenza i connotati: sia che i risvolti siano positivi o negativi. Ciò lo si evidenzia proprio col suo finale, con la sua fanfara attraverso la quale cristallizza (quasi fosse una cura Ludovico) la maggior parte degli eventi cinematografici che hanno segnato un cambiamento e un passaggio di testimone. Una tecnologia che ne soppianta un’altra, un modo di fare che viene susseguito dalla nuova generazione di cineasti e di sperimentatori. Nel suo film ci sono Cameron, Spielberg così come le sorelle Wachowski. Ci sono Terminator, Avatar, Sing in the rain, Matrix, Ben Hur e tanti altri film che hanno ristabilito una connessione profonda col loro pubblico. Un legame, insolubile, quello tra la sala e i cineasti. Perché, del resto, chi ama il cinema non vuol far altro che dar fiato alla propria voce.
Così il bianco e nero si mescola al tecnicolor, un linguaggio che ha mille codici che si fondono nell’RGB. Una musica che non ha una sola tonalità, ma unisce una polifonia di emozioni e di elementi. Tra moralità e immoralità, dunque, Chazelle suggella il suo patto d’amore e odio per quel mondo nel qual vive e del quale non può fare a meno.
Sì, Babylon è lento in alcuni punti, il mordente della sceneggiatura perde un po’ della sua efficacia, ma ciò che riesce a imprimere a livello emotivo è qualcosa di imperfetto che diviene perfetto. Come ogni singolo amore, infatti, si deve scendere a patti con esso e si devono portare alla luce gli aspetti positivi tanto quanto quelli negativi. Chazelle, quindi, ci bombarda, ci frastorna, ci odia e ci ama, ma fa tutto per suggellare il patto con la sala cinematografica.
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