Il racconto è stato scritto da Francesco Barbalace. Se siete interessati a seguire l’autore, potete farlo su Instagram e Facebook.
Il Dott. Riccardo Carulli, per tutti Dott. Carù, era un tranquillo e stimato medico di base di San Cataldo, ridente cittadina bagnata dal mar Tirreno nella profonda e aspra Calabria.
Il Dottore, che dalla vita non aveva ricevuto alcun figlio né moglie, godeva della stima incondizionata della maggior parte dei sancataldesi, non tanto per sue particolari doti sociali né per il suo carattere docile o estroverso o ancora per la sua estrema gentilezza.
In effetti, in pochi in paese avrebbero saputo fornire più di un generico e standardizzato aggettivo sul caro Carù e l’apprezzamento generale nei suoi confronti, a ben pensarci, era dovuto ai generosi turni di lavori da lui applicati.
Il Dottore, infatti, era solito stazionare nel suo minuscolo ambulatorio dalle sei di mattina fino alle diciannove, chiudendo soltanto per pranzare con il pasto che ogni mattina, puntualmente, trasportava dentro un contenitore di plastica, da casa sua fino al posto di lavoro.
Tale tracotanza di disponibilità oraria consentiva all’ambulatorio di non generare mai lunghe file, così che, ogni cittadino, potesse assolvere alle altre incombenze quotidiane senza la minima preoccupazione della ricetta medica da rinnovare, del controllo alla laringe arrosata di turno o dello strano fischio che si emetteva quando si provava a respirare più a fondo.
Ai sancataldesi, tutto sommato, importava poco del perché il Dott. Carù si ostinasse a mantenere tali orari da oltre trentacinque anni.
“Non c’è mica da stupirsi… d’altronde non ha nessuno ad aspettarlo a casa”, dicevano i più cinici.
“Che abbia un’infestazione pluridecennale di scarafaggi?”, diceva il provinciale più sarcastico.
“Secondo me odia i suoi vicini”, sottolineava qualcuno più maliziosamente.
In una delle tante giornate perse al bar di paese, Mario, l’idraulico senza clienti, azzardò invece un’ipotesi più oscura, che fece rizzare la peluria della schiena di Gianni il barista e incazzare gli altri alcolizzati al bancone.
“E se invece non torna a casa perché qualcosa lo spaventa? Pensateci bene, che motivo avrebbe di tenere aperto per tutte quelle ore? Per giunta anche di sabato! Qualcosa non va…” disse l’idraulico, mentre si asciugava le gocce di birra dai folti baffi.
“Che vuoi dire Mario? Parla chiaro!” gli rispose di getto un suo collega alcolista.
“Voglio dire, caro il mio nullafacente, che c’è qualcosa che lo tormenta in casa sua! Qualcosa di talmente terrificante da spingerlo a passare più tempo possibile lontano da quelle mura.” Precisò Mario.
“Non può essere semplicemente noia? In fondo pensateci bene, non ha moglie né figli, i suoi genitori sono morti da tempo e il familiare più vicino abita a oltre settanta km al di là della montagna dello Zomaro!” sbiascicò l’alcolista, mentre giocherellava con le briciole delle patatine che il bar forniva insieme alla birra. “Sarà, ma a me quest’idea non me la leva nessuno… gira voce che in quella casa non esista tranquillità.” bofonchiò Mario, mentre con un cenno salutava lo strano popolo di bevitori che occupava quel puzzolente bar di provincia.
Il Dottore, che dalla vita non aveva ricevuto alcun figlio né moglie, godeva della stima incondizionata della maggior parte dei sancataldesi, non tanto per sue particolari doti sociali né per il suo carattere docile o estroverso o ancora per la sua estrema gentilezza.
In effetti, in pochi in paese avrebbero saputo fornire più di un generico e standardizzato aggettivo sul caro Carù e l’apprezzamento generale nei suoi confronti, a ben pensarci, era dovuto ai generosi turni di lavori da lui applicati.
Il Dottore, infatti, era solito stazionare nel suo minuscolo ambulatorio dalle sei di mattina fino alle diciannove, chiudendo soltanto per pranzare con il pasto che ogni mattina, puntualmente, trasportava dentro un contenitore di plastica, da casa sua fino al posto di lavoro.
Tale tracotanza di disponibilità oraria consentiva all’ambulatorio di non generare mai lunghe file, così che, ogni cittadino, potesse assolvere alle altre incombenze quotidiane senza la minima preoccupazione della ricetta medica da rinnovare, del controllo alla laringe arrosata di turno o dello strano fischio che si emetteva quando si provava a respirare più a fondo.
Ai sancataldesi, tutto sommato, importava poco del perché il Dott. Carù si ostinasse a mantenere tali orari da oltre trentacinque anni.
“Non c’è mica da stupirsi… d’altronde non ha nessuno ad aspettarlo a casa”, dicevano i più cinici.
“Che abbia un’infestazione pluridecennale di scarafaggi?”, diceva il provinciale più sarcastico.
“Secondo me odia i suoi vicini”, sottolineava qualcuno più maliziosamente.
In una delle tante giornate perse al bar di paese, Mario, l’idraulico senza clienti, azzardò invece un’ipotesi più oscura, che fece rizzare la peluria della schiena di Gianni il barista e incazzare gli altri alcolizzati al bancone.
“E se invece non torna a casa perché qualcosa lo spaventa? Pensateci bene, che motivo avrebbe di tenere aperto per tutte quelle ore? Per giunta anche di sabato! Qualcosa non va…” disse l’idraulico, mentre si asciugava le gocce di birra dai folti baffi.
“Che vuoi dire Mario? Parla chiaro!” gli rispose di getto un suo collega alcolista.
“Voglio dire, caro il mio nullafacente, che c’è qualcosa che lo tormenta in casa sua! Qualcosa di talmente terrificante da spingerlo a passare più tempo possibile lontano da quelle mura.” Precisò Mario.
“Non può essere semplicemente noia? In fondo pensateci bene, non ha moglie né figli, i suoi genitori sono morti da tempo e il familiare più vicino abita a oltre settanta km al di là della montagna dello Zomaro!” sbiascicò l’alcolista, mentre giocherellava con le briciole delle patatine che il bar forniva insieme alla birra. “Sarà, ma a me quest’idea non me la leva nessuno… gira voce che in quella casa non esista tranquillità.” bofonchiò Mario, mentre con un cenno salutava lo strano popolo di bevitori che occupava quel puzzolente bar di provincia.
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