Il racconto è stato scritto da Francesco Barbalace. Se siete interessati a seguire l
’autore, potete farlo su
Instagram e
Facebook.Potete recuperare la prima parte
cliccando qui.
Quella sera di fine novembre, mentre la foschia avvolgeva San Cataldo e l’oscurità della notte abbracciava quella leggermente più luminosa del pomeriggio, il Dott. Carù si preparava a chiudere il suo ambulatorio. La visita alla Sig.ra Bertinotti era stata rapida e senza alcuna difficoltà. Lieve aritmia dovuta probabilmente a troppi caffè.
Prognosi: divieto assoluto di assumere caffeina ed esercizi di respirazione da ripetere quattro volte al giorno, il tutto condito da un dolce: “…e non si riempia la testa di cose che la tormentano. Parlo per esperienza”. Concluse mordendosi la lingua.
Salutata la Sig.ra e preparata la borsa, Il Dottore attraversò da un capo all’altro la cittadina che, settant’anni prima, aveva accolto suo padre.
Alla foschia dovuta all’umidità si univa il tanfo della salsedine sprigionata dall’infrangersi della risacca sul litorale. La notte sarebbe stata fredda e ventosa.
Con un brivido il Carù sollevò i lembi del giaccone fin sul naso e osservò lo spettrale lungomare del paese.
La vista delle case della cittadina gli fece tornare in mente il suo caro padre e, insieme alla nostalgia, un altro sentimento si fece strada nella sua mente. Era la paura. La paura nella sua forma più ancestrale e pura.
In pochi conoscevano, infatti, le reali circostanze della morte dei suoi genitori, l’elettricista Marcello Carulli e la madre Carla Lavoli.
Arrivato da un paese sulla costa ionica circa settant’anni or sono, in quel di San Cataldo Marcello aveva fatto la sua piccola fortuna fornendo i suoi servigi alla giovane imprenditoria di paese e al nascente sviluppo urbano del piccolo centro, con la conseguente nascita di villette, appartamenti e piccoli palazzi.
Niente di eccezionale, sia chiaro, ma sicuramente bastevole per mantenere gli studi della giovane moglie (studi che non avrebbe mai sfruttato) e per dare un futuro più che roseo al suo unico figlio.
Ciò che gradualmente avvenne tra le mura della vecchia casa ottocentesca appena acquistata, fu terribile e inenarrabile.
La madre del Dott. Carù, una domenica di marzo, acquistò per pochi spiccioli una vecchia radio di fine anni ottanta, pregustando le ore a godersi canzoni varie insieme al gran lavoratore che era suo marito, mentre il figlio, ormai diciannovenne, studiava Medicina e Chirurgia nella non troppo lontana Messina.
Nonostante una situazione finanziaria non debole, di certo Riccardo non poteva permettersi di traghettare e di risalire la costa in treno ogni fine settimana, anche considerando i suoi impegni accademici.
Dopo alcuni mesi dall’acquisto dell’oggetto radiofonico, Carù riuscì finalmente a ritornare nella propria abitazione nativa.
Ciò che vi trovò, tuttavia, fu tutt’altro che il quadretto felice che la madre gli aveva descritto solo pochi mesi prima, quando era ancora incantata dal recente acquisto.
La madre appariva visibilmente invecchiata e ingrigita, tant’è che anche le sue pietanze sembravano aver inglobato quel suo ambiguo stato d’animo.
Il Sig. Marcello aveva smesso ormai da mesi di lavorare, sfruttando una pensione anticipata forse giunta con troppo anticipo e che lo stava consumando da dentro.
Alle richieste spaventate di spiegazioni da parte del figlio, lo stesso rispondeva con poche parole, affermando di non aver voglia di fare nulla e come ormai la sua ora fosse giunta.
La situazione peggiorava di mese in mese e Carù si accorgeva dell’estrema vulnerabilità dei genitori ogni volta che riusciva a ritagliarsi un fine settimana libero.
Il sostegno economico per i suoi studi era garantito da un libretto di risparmio che i suoi avevano alimentato negli anni precedenti, tuttavia la loro condizione era terribile.
I capelli della madre avevano perso ogni parvenza di colore, così come gli occhi, che apparivano spenti e a tratti, addirittura, “cattivi”.
Brividi percorrevano la schiena dello studente di Medicina, in particolare quando, in un’occasione specifica, osservò un malessere di vivere tangibile e concreto quanto il manuale di anatomia che avrebbe dovuto studiare.
“Papà… torna in te. Ti prego”, diceva Carù con le lacrime agli occhi mentre si prostrava ai piedi del silente padre, accarezzandogli le mani gelide come la morte.
“Io non ho proprio un cazzo. Va bene? Voglio solo morire. C’è la voce… La voce. Quel dannato rumore. Mi dice lui quello che devo fare…e dopotutto ha ragione sai? Vaffanculo!” urlò con rabbia e disprezzo Marcello, con una voce stridula e arrogante.
Una macchia nera di orrore strinse l’ugola di Carù fino a bloccargli il respiro, mentre la sua mente, in un remoto angolo di razionalità, ricollegava i giusti fili e individuava il “responsabile”.
Era la radio, quella maledetta radio stava intossicando la mente dei suoi genitori e causando la lenta morte del padre. Non sapeva come fosse possibile, non ne conosceva il motivo ma ne era sicuro. Con sicurezza, il futuro Dottore si mosse velocemente.
Lasciò il padre in camera e sgusciò dietro alla madre intenta a preparare un (probabile) cencioso pasto, e si avviò verso il salotto.
Un fulmine stava sconquassando San Cataldo mentre si dirigeva verso casa, un fulmine del tutto simile alla saetta che quella nottò provoco un boato che gli rimescolò le viscere.
Il salotto di casa era buio e, quando accese la luce, l’apparecchio infernale si accese senza che nessuno lo comandasse, sparando quasi in cacofonia, “I don’t want to set the world on fire” dentro le orecchie di Carù.
In un istante lo studente di medicina attraversò la stanza, e mentre stava per stringere la fonte che emetteva il suono, la musica si trasformò in un rantolo sconnesso e malvagio, mentre porte e finestre sbattevano chiudendosi, bloccandolo in un’eterea situazione con il male.
Disturbato da rumore di onde sonore, la radio sputava fuori un’indicazione terribile.
“Ciao Riccardo! BZzzzz…Piaciuto il ritorno a casa? Lo sai che i tuoi genitori sono miei da molti mesi ormai? Bzzzz..”.
“Mi dici cosa vuoi, vecchia stronza?” Urlò Riccardo con fare maniacale, stupendosi di star urlando contro una radio demoniaca.
“Voglio… MORTE! Bzzzz. Voglio te” partorì l’essere immondo che albergava tra le pareti di plastica.
Intanto il ritornello della celebre canzone rimbalzava, con suoni distorti e alterati, tra le pareti del salotto facendo fischiare le orecchie di Carù, che replicò:
“Se ti do me tu lascerai in pace la mia famiglia?”
“… Certo!” rispose il male, causando l’interruzione del caos nel salotto.
Riccardo allora seppe di aver creato un accordo con un essere che ormai possedeva la sua intera esistenza e vita.
I suoi genitori sembravano non aver sentito nulla di tutto quel baccano e la cena finì in un silenzio tombale.
L’indomani Carù ripartì per Messina con la consapevolezza di aver placato, almeno temporaneamente, il malessere che stava uccidendo i suoi genitori.
La quiete, tuttavia, fu subito interrotta il giorno dopo. Durante una lezione di genetica una telefonata aveva scosso le aule della facoltà di Medicina e Chirurgia.
“Riccardo, chiedono di lei al telefono dell’ateneo.” gli comunicò stizzito il Professore.
“Pronto?” aveva detto Carù con la cornetta all’orecchio.
“Pronto Sig. Carulli. Devo informarla che suo padre è… morto. Sono il comandante della stazione dei carabinieri di San Cataldo. Dovrebbe venire subito qui. Sua mamma… ecco. Non sembra averla presa molto bene.” gli comunicò una voce fredda e distaccata.
Riattaccò.
Tre ore dopo Riccardo varcò la soglia di casa sua, notando una sporcizia generale e profusa che mai aveva visto presso la sua abitazione e scansando i tanti carabinieri e persone in tuta che gli ostruivano il passaggio.
Fu tutto molto confuso e veloce. Spiegazioni, richieste di documenti, sua madre che piangeva immobile in cucina e poi la porta del salotto chiusa.
Era stata lei! La stramaledetta Radio! Gelidi brividi accoltellavano lo stomaco di Carù mentre apriva la porta.
La radio, sorniona, era ancora appoggiata sulla mensola sopra il camino e si godeva il ripugnante spettacolo del cervello del padre spappolato sulla parete opposta.
Ciò che restava del suo corpo era circondato da medici legali.
Accanto a quel cadavere, giaceva un fucile da caccia mai appartenuto al padre.
Il terrore baciò la sua faccia e la sua esistenza perse completamente di senso.
Pochi mesi dopo anche la madre si tolse la vita, o meglio, fu uccisa dalla radio in un impeto di follia (o di lucidità).
Ventitré pillole di Valium erano bastate per sancirne la morte.
Riccardo pensava a tutto questo mentre il temporale conquistava il cielo di San Cataldo e apriva la porta di quella casa infestata dall’essere immondo.
Nessun commento:
Posta un commento