mercoledì 23 novembre 2022

#PennyLane: In my life... - extra

⚠️ VM.18

Questa è un'opera di fantasia. La storia che segue è frutto dell'immaginazione dell'autrice e non è da considerarsi reale. È una fan-fiction ispirata al testo della canzone "Penny Lane" dei Beatles, i quali detengono i diritti sul brano.
Ascoltando il brano e traducendolo quando aveva tredici anni, le è venuta in mente questa storia che è quindi soltanto una sua personale interpretazione della quale detiene ogni diritto.

Attenzione: i capitoli "extra" sono da considerarsi estrapolazione della fan-fiction stessa, vi consigliamo di leggerli dopo aver concluso la storia originale. Molto probabilmente verranno pubblicati in ordine del tutto casuale e con stili differenti.

Si era dimenticata di quanto il clima londinese fosse ostile nel periodo di dicembre; nonostante un cielo grigio ma senza alcuna minaccia di pioggia o neve, il freddo le sembra entrare nelle ossa. Cappello, sciarpa e guanti di lana rossi, giubbotto bianco imbottito, l’outfit perfetto per il periodo natalizio in avvicinamento. Ma se a Roma quasi sentiva caldo conciata in quel modo, qui è praticamente a un passo dal gelarsi. Guarda con impazienza lo schermo del telefono e i minuti che mancano all’arrivo del suo Uber. Solo cinque. Chi esce dalle porte scorrevoli dell’aeroporto di Londra la osserva senza farsi notare, non riescono a capire se sia una turista, o qualcuna del luogo. È la dura vita di chi ha il sangue misto: non ci si sente mai di appartenere totalmente a uno stato soltanto. Ma probabilmente quelle paranoie vivono solo nella sua testa e nella realtà nessuno si è accorto della sua presenza.
È vero, comunque, che basta parlare cinque minuti con lei per domandarsi da dove provenga. La pelle chiara, i capelli biondi, gli occhi azzurri, il fisico slanciato e magrolino, portano gli italiani a chiederle: “Ma tu non sei di qui, vero?”. Ma l’intolleranza al clima rigido, il carattere solare, spontaneo, -e per assurdo la pelle “troppo” scura- i lineamenti mediorientali, portano gli inglesi a porgerle la stessa domanda. A Lucrezia non è mai importato più di tanto, anzi, le piace raccontare la storia di come i suoi genitori e i suoi bisnonni si siano conosciuti. Madre romana, padre londinese, bisnonno russo e bisnonna iraniana è la risposta esatta al cocktail geo-culturale presente nel suo dna.

«Dove la porto?» le chiede cordialmente il suo autista Uber dopo averla aiutata a caricare la valigia. Lucrezia si prende qualche secondo per rispondere, giusto per salire nella vettura riscaldata e darsi il tempo di scongelarsi dall’interno. Dà l’indirizzo all’uomo, che le sorride di rimando. Uno dei poteri di cui si vanta la ragazza, è quello di capire cosa pensano le persone. Forse è una dote presente in ogni artista, o forse è il prezzo da pagare per esserlo.
«Non sei di qui, vero?»
Una domanda inaspettata.” Si dice Lucrezia sorridendo. Per rispondere abbassa la sciarpa che le pizzica sulle labbra. «Non proprio. Sono di Roma, ma mio padre è di Londra, sto andando a trovare mia nonna.»
Meglio non aggiungere le altre provenienze, il viaggio in macchina durerà davvero poco.
Non ha mai capito se sia per il fatto che è italiana, o semplicemente perché ha forti vibrazioni amichevoli, ma lei non ha mai riscontrato nella realtà un inglese freddo e distaccato. Le hanno sempre parlato senza problemi, e Jack, l’autista, non è da meno. Incuriosito più dalla vita a Roma che da altro, le ha fatto così tante domande che il tragitto normalmente breve, sembra essere durato in un lampo.

Jack le lascia la valigia sul marciapiede, davanti a casa della nonna. La osserva in modo paterno, dopotutto ha una figlia della stessa età, solo molto più timida. Tornato a casa le parlerà della giovane donna, chissà, forse anche Cassandra riuscirà a uscire dalla sua comfort zone. Certo, non può permettersi di mantenerla in una città come Roma, ma un viaggio in primavera, forse potrebbe regalarglielo.
«Ti ringrazio, Lucierzia.» la ragazza sorride, ma non corregge la pronuncia di Jack, in questo è molto inglese. «Ora so cosa regalare a mia figlia per Natale.»
«Sono felice! Dille di seguirmi su Instagram, così avrà una guida gratuita!» Lucrezia porta le mani giunte al petto e fa un inchino. È il suo modo da sempre per salutare e ringraziare, e con la pandemia i più hanno cominciato a copiarla.

Paul non fa caso ai passi più lenti e pesanti di Agatha. Sta leggendo il giornale dal suo smartphone, lei arriva in cucina per controllare che i biscotti non si stiano bruciando dentro al forno. Sono quasi le quattro del pomeriggio, e da buoni inglesi ormai anziani, tutto deve essere pronto per il tè.
«Dovrei pulirlo, ma come potrei? Non ricordo più com’è mettersi in ginocchio. Quand’è che siamo invecchiati?» Agatha scuote la testa cercando di capire se il colore dei biscotti sia della sfumatura dorata giusta.
Paul si sistema gli occhiali e allontana il telefono da sé, per leggere meglio i caratteri più piccoli. Trattiene il fiato, come se il respiro potesse in qualche modo impedire la lettura; la bocca aperta a formare una “o”.
«Parla per te. E comunque è ora che ti prenda un aiuto in casa.»
Agatha lo guarda rabbuiandosi, lui sembra accorgersene, anche se sta alle sue spalle. Si volta, posando il telefono sul tavolo. «Non ti voglio offendere, sei attiva, so benissimo che cammini tutti i giorni per tre chilometri.» Si alza e va da lei, stringendole le braccia. «Dico solo che un aiuto non è poi un problema.»
Agatha vorrebbe rispondere a tono, ma si blocca. Sa perfettamente che Paul ha ragione. Non è mai stato un problema invecchiare, per lei ed effettivamente il suo corpo non ha risentito tanto del trascorrere del tempo. Certo, ha preso peso, le ossa sono più fragili, e si stanca più facilmente, ma riesce bene o male a fare tutto.
«Hai ragione, chiederò a mia figlia di cercarmi qualcuno…»
Paul annuisce, ma la conversazione si interrompe per il suono prolungato del campanello. I due si guardano. Non aspettano ospiti, è il 9 dicembre. Tutti i loro famigliari più stretti sanno che in quella data devono essere lasciati da soli.
«Forse è solo la vicina nuova, guardo dalla finestra. Tu però rimani qui. Ci manca solo che una sconosciuta veda Paul McCartney a casa di una vedova…»
«La sconosciuta non può sapere che sei una vedova.» Il tono saccente di Paul fa sospirare Agatha, che scuote la testa divertita. Saranno anche quasi sull’ottantina, ma a lei sembra di essere rimasta ragazzina.

Lucrezia saltella tra uno scalino e l’altro, in attesa che sua nonna venga ad aprirle la porta. “Ma quanto ci mette?” Improvvisamente il cuore le batte forte in petto. E se fosse caduta? E se stesse male? “Stupida! Te e la tua voglia di fare una sorpresa! Potevi almeno chiamarla uscita dall’aeroporto.” Prende il telefono dalla tasca del giubbino. «Hey, Siri.» Schermo nero. «Siri!» ancora lo schermo nero. «Maledizione, Siri!» e proprio quando la voce robotica del telefono le risponde: “Eccomi, dimmi.”, si apre la porta.

«Nonna!» Lucrezia si butta al petto di Agatha, che non riesce a trattenere le lacrime per l’emozione. «Perché non hai risposto subito?»
Agatha stringe la nipote tra le braccia. Dio, quanto le è mancata. Prima dei vari lockdown riuscivano a vedersi quasi ogni mese, alternando le visite di una all’altra. Subito un pensiero le appare in mente: ma come ha fatto a venire? Gli aereoporti non dovrebbero essere ancora chiusi? Lucrezia sembra leggerle dentro, come sempre.
«Ti ricordi Alessio? Quel mio amico dell’università? Quello che fa il master qui a Londra? Beh, lavora in uno studio d’avvocati, e mi ha convocato.» Il sorriso malizioso della nipote fa capire ad Agatha che sono le classiche furbate all’italiana.
Si sciolgono dall’abbraccio e la ragazza entra in casa, assaporando il caldo, ma soprattutto l’odore di biscotti alle nocciole.
«Vengono i cugini?»
«No, oggi è nove dicemb…» Agatha si blocca, effettivamente nessuno dei suoi nipoti sa della sua tradizione, è stata categorica con figli: non avrebbero mai dovuto dire niente a nessuno. Segue velocemente la nipote, per bloccarla prima di entrare in cucina. Dall’urlo che sente, capisce che è troppo tardi.

Paul guarda la ragazza in cucina con aria colpevole, e con metà del biscotto appena sfornato in bocca, ne ha effettivamente tutta l’aria. Lucrezia ha le mani sulla faccia, gli occhi sgranati, ma rimane immobile. Il suo cervello sembra essersi resettato, non ha alcun pensiero, se non la faccia di Paul McCartney davanti a lei. La nonna arriva in cucina, guarda entrambi imbarazzata, come se fosse tornata ai suoi quindici anni e fosse stata di nuovo beccata dai suoi genitori in compagnia di John e Paul.

«Siediti, cara.» Le fa la nonna, ma Lucrezia rimane impassibile. Agatha non riesce più a guardarla negli occhi, ora tutte le bugie raccontate stanno via via salendo a galla. “Beh, non sono vere e proprie bugie.” Cerca di giustificarsi la sua voce interiore. “Semplicemente, non hai mai detto a tua nipote, grandissima fan dei Beatles, che li conosci. È omissione, non bugia.” Sorride per un secondo, quella vocina era stata in silenzio per anni, ed eccola tornare alla carica.
«Togliti il giubbino, avrai caldo.» Le fa Paul, dopo aver mandato giù l’ultimo pezzo di biscotto. Lui è ormai abituato alle reazioni della gente quando lo riconoscono e non dà più peso a tutto ciò.
Lucrezia annuisce ancora frastornata, cominciando ad abbassarsi la lampo. Poi qualcosa la blocca, le guance si fanno rosse. I suoi venticinque anni sembrano essere diventati tredici. Non può togliersi il giubbino. Comincia a piangere. Sotto ha la felpa dei Beatles.
Agatha e Paul la guardano perplessi, ma la prima è a conoscenza del perché di quel pianto. Sa perfettamente che la prima tappa londinese di sua nipote sono gli studi di Abbey Road.
«Tesoro, puoi togliertelo, non c’è problema.» le carezze della nonna sembrano dare coraggio a Lucrezia, che intimidita come se dovesse confessare un crimine, se lo toglie, stando molto attenta a non incrociare mai gli occhi di Paul.
«Bella felpa». Fa lui, e poi va verso il frigo. «Vuoi un po’ di tè con il latte?»

Sono passati cinque minuti che in quella cucina sembrano essere stati un’infinità. Paul è tornato a leggere il giornale dal suo smartphone, ma la più tesa è sicuramente Agatha. Conosce bene sua nipote, non è mai stata in silenzio per tutto questo tempo, né tantomeno è una ragazza timida. Le ha raccontato di tutte quelle volte in cui ha incontrato artisti, attori, e si è fermata a chiacchierare come se fossero amici di vecchia data. Ha dentro di sé l’indole della giornalista, tra i talenti scrittura e comunicazione non possono mancare. Non è timidezza, la sua, è delusione. Agatha vorrebbe fare il primo passo, ma non sa davvero come uscirsene.
«Tutte quelle volte…» la voce di Lucrezia è un sussurro, così lei si schiarisce la voce per acquisire un tono di voce più alto. «Tutte quelle volte che mi hai portata agli studi di Abbey Road, che siamo andate a Liverpool a trovare le zie e mi hai portato a Penny Lane, a Strawberry Fields… in tutte quelle volte, tu già lo conoscevi?»
Paul fa un sorriso, una smorfia che vorrebbe dire tanto, e che Agatha blocca con uno sguardo. «Tesoro mio, è complicato.» le risponde la nonna.
«Non così tanto.» scuote la testa Paul.
Lucrezia guarda entrambi, confusa.
«Posso raccontarti tutto,» fa la nonna dopo una pausa. «ma devi promettermi alcune cose.» quando vede la nipote annuire, Agatha continua. «Di non dire a nessuno ciò che saprai. Ci sono troppe vite di mezzo, troppe storie ufficiali che potrebbero cambiare e non sarebbe giusto.»
La ragazza ora è più incuriosita che altro, non vede l’ora di sapere cosa ci sia di tanto segreto.
«Risponderò e spiegherò tutto, ascolterò anche eventuali critiche e mi prenderò tutte le colpe che vorrai darmi, ma a patto che anche tu ascolti per bene me.»
Lucrezia si inumidisce le labbra. Lei e sua nonna hanno sempre avuto un carattere molto simile; Emilia, sua madre, le ripete sempre che è la nipote preferita di Agatha. Lei crede a quelle parole, ma non le ha mai fatte pesare ai suoi cugini. Il rapporto che ha con sua nonna è sul serio speciale, ma non è giusto che lo faccia notare anche agli altri. Se sua nonna le dice che è disposta a prendersi ogni colpa, Lucrezia sa che ciò che sta per essere rivelato la cambierà ai suoi occhi, e inevitabilmente farà mutare anche il loro rapporto. Annuisce lentamente, vuole davvero rischiare così tanto? Il suo ego è diviso in due: da una parte vorrebbe che tutto rimanesse com’è. Vorrebbe andare a dormire nella stanza che una volta fu di suo padre e suo zio, svegliarsi il giorno dopo e notare che Paul McCartney in cucina di sua nonna era tutto un sogno. Dall’altra, però, l’ego le impone di rimanere: probabilmente saprà qualcosa che nessun altro fan al mondo sa.
«E in ultimo… devi sapere da subito che non ho mai voluto mentire a nessuno.»
Ma lo hai fatto.” Lucrezia avrebbe esternato questo pensiero ai suoi genitori, ma mai a sua nonna.
«È solo che…» Agatha manda giù la saliva. «Quando si tratta di Paul, e di John…»
Lucrezia guarda confusa Agatha, poi Paul, che al nome di John posa di nuovo il telefono e stringe la mano della nonna.
«Quando si tratta di loro due, vorrei che tutto rimanesse solo per me.»
In una frazione di secondo, a Lucrezia vengono in mente le diverse interviste di Paul, quelle in cui diceva che ci sono cose di John, e su John, che non dirà mai a nessuno, che sua nonna le sappia?

«Come ben sai sono di Liverpool, e lì che non è che ci sia stato mai molto da fare. I miei genitori, poi, non è che fossero severi, ma sicuramente non mi davano molte occasioni per poter uscire. Potevo invitare solo un’amica al mese, e di amicizie maschili, neanche a parlarne. Così la mia vita da adolescente era incentrata su scuola, casa e commissioni al mercato insieme a mia madre o alle mie sorelle più grandi. Un giorno, io avevo circa quattordici anni, ricordo che aspettai Agnes davanti al cancello della sua scuola, l’Istituto d’Arte. Ricordi che belli i dipinti della zia? Beh, si trattava di talento, certo, ma anche di anni di studio.»
Agli occhi umidi della nonna, Lucrezia intuisce che sta per arrivare una prima rivelazione. Poi i suoi neuroni fanno rapidamente due conti: fine anni Cinquanta, Liverpool, Istituto d’Arte… John Lennon?

«Ero molto timida, e odiavo aspettare mia sorella in un luogo pieno di ragazzi più grandi, che non conoscevo. Stavo con lo sguardo a terra, i piedi ben dritti, le mani che stringevano la cartella, e una miriade di lamentele che avrei fatto ad Agnes appena fosse arrivata. A un certo punto, un ragazzo mi si mise davanti. Ero timida, sì, ma di certo non scema, così alzai lo sguardo e lo sostenni. Beh, per pochi secondi, perché per me fu amore a prima vista, colpo di fulmine, insomma, hai capito.»     
Lucrezia non ha certo dubbi. La nonna non può parlare già di nonno Philip, lui era di Londra, non di Liverpool. Poi ricorda che si sono conosciuti proprio lì vicino, al negozio di fiori, negli anni sessanta. Sua nonna le sta parlando del primo incontro con John Lennon. Le dispiace già ammettere che chi ha davanti è Agatha, non più sua nonna, e per Lucrezia è come assistere a una fonte storica e affidabile, un documentario solo per sé.

«Questo ragazzo, jeans, giacca di pelle, capelli chiari spettinati, sguardo da duro, con l’aria da dannato, mi fa, seriamente: “Tu non sei di qui”.» Agatha si asciuga qualche lacrima con le dita della mano, e sorride.
«Qualche mese dopo mi ha confessato che me lo aveva detto per il colore della pelle, così scura. Insomma, quando lo guardo meglio, lui quasi sbianca. “Ma sei la sorellina di Agnes?” Io annuisco, mi chiedo se quei due hanno una qualche relazione, mia sorella era molto ribelle. Non faccio in tempo a chiedergli il perché di quella domanda, che Agnes si palesa urlando: “Vai via, Lennon. Lasciala in pace”. Il ragazzo le sorride e risponde con un saluto militaresco, poi mi guarda e mi fa l’occhiolino. Beh, puoi immaginarmi. Ero già cotta. Sono sempre stata unita con le mie sorelle, così non ho perso tempo e ho cominciato a tartassare Agnes con le mie mille domande: chi è? Che fa? Perché ti conosce? C’è qualcosa tra di voi…
Zia Agnes, te la ricordi? Era sempre molto evasiva. Così aveva risposto rapidamente, senza aggiungere molti dettagli. “Si chiama John Lennon, fa sempre casino, ma dicono sia bravo a suonare. Ha un gruppo, non ricordo il nome. Non mi conosce, o meglio: non ci siamo quasi mai parlati, quindi no, non c’è niente tra di noi. Poi io sono più grande di lui, quindi… Forse ti avrà riconosciuto per via dei nostri colori e lineamenti strani. Siamo le uniche qui mezze russe e mezze mediorientali.”. Non ebbi il coraggio di domandarle perché l’avesse cacciato via, ma ora posso immaginare che non voleva mettermi nei guai. Non so come spiegarlo, c’era qualcosa in John. Una sorta di energia…»

«Tipo quella che vedono Sonia e Lavinia?» domanda Lucrezia.
Sonia e Lavinia sono le migliori amiche di Lucrezia, Agatha le considera come nipoti. Le tre conoscono dalle elementari e ogni estate, dalle scuole medie, sono ospiti da Agatha. Grazie a quei viaggi, anche loro sanno l’inglese alla perfezione. Agatha ama parlare con i giovani, la fa sentire ancora parte integrante della società.
Una volta le due le avevano confessato che erano in grado di vedere dei colori attorno alle persone, e questi colori cambiano a seconda dell’umore, delle malattie o più semplicemente delle energie.
«Le sue amiche vedono le auree.» spiega al perplesso Paul.
«Comunque sì, qualcosa del genere. John era magnetico, ci si accorgeva subito se era interessato a qualcuno, e quel qualcuno non poteva fare altro che ricambiare.»
Agatha e Paul si guardano, sorridendo.
Paul bacia Agatha sulla tempia, in un gesto che sa di intimità.
«Scusami, nonna, una cosa. Sai che adoro sentirti raccontare la tua vita, e sai che adoro conoscere nuovi aneddoti sui Beatles.» Lucrezia incontra gli occhi orgogliosi di Paul. «Ma io qui davanti vedo una coppia innamorata, come se aveste trascorso l’intera vita insieme, e insomma, poi mi parli di John? Non la starai prendendo un po’ troppo alla lontana?»
«Rilassati, se hai fame possiamo fare una pausa.»
«Scherzi? Continua.»

Il racconto continuerà il prossimo mese.

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