Sono tanti gli enigmi su cui gli esseri umani si interrogano, domande poste fin dall’alba dei tempi a cui la scienza ancora non è riuscita a rispondere. Agli albori della società, gli esseri umani hanno celebrato i misteri di vita e morte, e se per il primo sappiamo abbastanza, così tanto che ora possiamo vedere anche il bambino nel grembo materno, per il secondo ancora non sappiamo molto.
Cosa succede dopo la morte? Il corpo fisico è davvero tutto ciò che abbiamo? Se è vero che nulla si distrugge e nulla si crea, ma tutto si trasforma, cosa accade alla nostra anima? Ma abbiamo un’anima? Esiste?
Qualsiasi sia la vostra risposta, non si può confermare, ma neanche negare.
Per quanto vogliamo fare i materialisti/cinici/scientifici (scegliete voi il termine) non possiamo ignorare il fatto che i più grandi ricercatori non hanno mai negato l’esistenza di qualcosa che va oltre ciò che vediamo, tanto da occuparsi anche di filosofia, teologia e spiritualità.
Cosa succede dopo la morte? Il corpo fisico è davvero tutto ciò che abbiamo? Se è vero che nulla si distrugge e nulla si crea, ma tutto si trasforma, cosa accade alla nostra anima? Ma abbiamo un’anima? Esiste?
Qualsiasi sia la vostra risposta, non si può confermare, ma neanche negare.
Per quanto vogliamo fare i materialisti/cinici/scientifici (scegliete voi il termine) non possiamo ignorare il fatto che i più grandi ricercatori non hanno mai negato l’esistenza di qualcosa che va oltre ciò che vediamo, tanto da occuparsi anche di filosofia, teologia e spiritualità.
“Scienza e religione non sono in contrasto, ma hanno bisogno una dell’altra per completarsi nella mente di un uomo che riflette seriamente”
-Max Planck
È proprio con le parole di Max Planck che oggi vogliamo parlarvi dell’archetipo della Morte: esperienza di vita che non riusciamo ad accettare completamente, ma che è l’unica certezza che abbiamo fin dalla nostra nascita.
Il periodo di fine ottobre ha sempre affascinato i popoli antichi, che hanno da sempre visto l’avanzare del buio come un monito di morte. “Ricordati che devi morire”, ci verrebbe da dire ora ridendo, ma in un tempo senza medicine, senza la giusta alimentazione e con una violenza inaudita, la morte era davvero all’ordine del giorno. Più che un ricordo, doveva essere per loro una vera e propria accettazione.
È natura dell’essere umano ricacciare la sensazione del dolore, ma se quello fisico lo abbiamo da subito associato a un campanello d’allarme, a un avviso che ci impone riposo e cure, quello emotivo o psicologico lo abbiamo a lungo ignorato, evitato, come se fosse un peso inutile, un impedimento alla nostra vita. “Sorridi, fai finta di niente”, come già detto nell’articolo dedicato a “Inside Out”, scegliamo di nascondere la tristezza dietro una qualsiasi emozione ma tale sentimento è importante tanto e quanto gli altri.
La morte, vista come la fine di tutto – anche una separazione o la fine di un lavoro sono considerati dei veri e propri lutti a livello emotivo – ci ha sempre fatto scappare, addirittura pensando di non poterci scherzare su, come se non parlandone, lei non si accorgesse che siamo ancora in vita.
Quando arriva sotto ogni sua forma, però, lascia con molti interrogativi, il maggiore di tutti: “perché?” Perché è successo proprio a me? Perché così presto? Perché si muore?
Le reazioni davanti alla morte sono varie, dalla rabbia al vittimismo, entrambi modi di non accettare l’avvenimento, di vivere nell’eterno passato, aggrappandoci ai ricordi e farli vivere come fossero il nostro presente, senza un motivo per poter andare avanti.
Le fasi del lutto, lo sappiamo, sono cinque: rifiuto e negazione, rabbia, patteggiamento o contrattazione, depressione e accettazione. Per quanto possano durare, arriva sempre il momento in cui aggrapparci al passato fa più male che lasciarlo andare, così ci liberiamo.
Ora in nostro soccorso possono venire psicologi, psichiatri, terapeuti, ma secoli e secoli fa gli uomini si aggrappavano a quello che era il Destino.
Nei miti nordici l’inconscio è rappresentato dal Pozzo del Tempo, dove sono contenute tutte le nostre azioni passate. È da qui che le tre Norne, coloro che controllano il Destino, prendono l’acqua e annaffiano costantemente l’Albero della Vita; i frutti che mangiamo, ciò che ci accade, è semplicemente frutto, appunto, del nostro passato.
Per i popoli orientali, che seguono i Veda, questa si chiama legge del Karma, dove la parola sanscrita vuol dire proprio “agire”. E anche se la new age occidentale ama parlare di karma negativo e positivo, in realtà in origine viene chiamato: kusala (trad. karma intelligente) e akusala (karma non intelligente). Il primo sono le azioni ponderate, finalizzate al bene, che hanno un obiettivo di crescita personale e collettiva; le seconde sono le scelte impulsive, dettate dai guna (emozioni che influenzano le nostre azioni) più bassi e che provocano solo piacere egoico.
Insomma, il vittimismo era così sconfitto da entrambi questi pensieri: non possiamo prendercela con nessuno se non con noi stessi, e se vogliamo avere diversi frutti, bisogna cambiare il modo di agire.
Da qui subito la domanda: “ma che male può aver fatto un bambino di due, tre anni per meritare una qualsiasi giustizia divina?”
Ai tempi, e ancora adesso in diversi credo, arriva in soccorso la reincarnazione, proprio perché, come detto prima, è stato fin da subito chiaro che l’energia non si crea, né si distrugge: si trasforma.
Se per gli orientali il Destino diviene così controllato da noi stessi, per la mitologia nordica e occidentale, esso è controllato dalle tre Norne (per i latini sono le Fatae, per i greci le Moire) a cui tutti, anche gli dèi, devono sottostare.
Per i popoli nordici Urd è colei che si occupa di tessere il filo del destino, e rappresenta il passato; Verdandi arrotola il filo, in rappresentazione del presente e Skuld lo recide, rappresentando così il futuro. Vivono sotto le radici di Yggdrasil (l’Albero della Vita di cui abbiamo parlato prima) non hanno nulla contro un umano o un Dio, sono solo coloro che si prendono cura del nostro giardino, ma siamo noi i padroni e l’acqua che prendono è la nostra più totale responsabilità.
Proprio come in un’immensa foresta, ogni Albero personale è collegato – sia con le radici che con i rami – con quelli vicini. Nascono così i concetti di karma famigliare, nazionale e universale, a cui Jung avrebbe poi dato il nome di inconscio collettivo.
Ecco che fin da subito le nostre azioni non riguardano più solo noi stessi, ma anche chi ci circonda e a effetto domino, l’intera razza umana. Nessuna frase è più azzeccata di quella di Gandhi: “Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”, insomma.
Ma se sono le Norne a decidere del nostro destino, come possiamo stare sotto libero arbitrio?
La filosofia di chi sta scrivendo è piuttosto brutale: il libero arbitrio non esiste. O meglio, non finché non cominciamo a parlare direttamente al nostro inconscio, obiettivo abbastanza difficile da raggiungere. Come spiegato sempre nell’articolo di Inside Out, noi siamo come Riley: robottini che ricevono ordini dal quartier generale. Sono le nostre emozioni a guidarci, anche se non dovrebbero: è nostro compito prendere il comando.
In effetti anche i popoli antichi si sono posti questa domanda: se le Norne innaffiano il mio albero con le scelte passate, come posso cambiare acqua? Solo mutando le mie decisioni, i miei pensieri? E come fare per l’impulsività?
Nasce così il concetto di astrologia, assolutamente non inteso come ora. Alla sua nascita era un linguaggio del tutto simbolico – avevano già capito, infatti, che l’inconscio ha una logica che ha poco a che vedere con quella razionale – che descrive secondo dei modelli la possibile vita del nascituro.
La mappa astrale – che consultavano i più grandi imperatori, sacerdoti e che tuttora è molto considerata a certi livelli, vi piaccia o no ammetterlo – è una vera e propria mappa: indica i nostri limiti, le nostre potenzialità, i doni e i talenti che l’Universo ci ha consegnato alla nascita (se vi è venuta in mente la scena dei Re Magi: bravi!) ma che sta a noi saper come sfruttare.
Consultando attentamente gli aspetti, l’astrologo metteva in guardia da possibili sfide, passioni, intrighi e anche dalla propria morte, a cui – ovviamente – non si poteva sfuggire, qualsiasi fossero le accortezze scelte per scampare al pericolo.
Fatto divertente: in astrologia la morte è associata all’ottava casa, quella rappresentata dall’ottavo segno zodiacale: lo Scorpione, che inizia a dominare i nostri cieli proprio dalla fine di ottobre. Il pianeta associato alla morte è Plutone, governato appunto dallo Scorpione. L’archetipo dello Scorpione è quello del distruttore: colui che deve accettare e comprendere il cambiamento, la morte e il dolore a essi associati al fine di trasformarsi.
“Come in cielo, così in terra”
Questo periodo dell’anno oltre ad aiutarci ad accettare la morte, concludeva anche il ciclo del raccolto, e tutti – in particolare chi coltivava le terre – cominciavano a prepararsi per il prossimo.
Samhain, celebrato il 31 ottobre, era un vero e proprio capodanno, dove il passato lasciava il posto al futuro, proprio osservando il presente.
Si meditava a fondo su ciò che si aveva ottenuto, si ringraziava per l’arrivo del nuovo, e per il vecchio che era andato via, e si appuntavano mentalmente i propri desideri di cambiamento, in modo tale che si cominciasse a lavorare.
Insomma, fin da sempre l’umanità ha preferito non pensare troppo a cosa fosse la morte o perché accadesse, concentrandosi maggiormente sull’accettazione del proprio destino e sul lavorare dall’interno per avere maggior benessere all’esterno.
Scelta molto saggia dei nostri antenati, perché che cos’è dopotutto la morte, se non un semplice cambiamento?
È natura dell’essere umano ricacciare la sensazione del dolore, ma se quello fisico lo abbiamo da subito associato a un campanello d’allarme, a un avviso che ci impone riposo e cure, quello emotivo o psicologico lo abbiamo a lungo ignorato, evitato, come se fosse un peso inutile, un impedimento alla nostra vita. “Sorridi, fai finta di niente”, come già detto nell’articolo dedicato a “Inside Out”, scegliamo di nascondere la tristezza dietro una qualsiasi emozione ma tale sentimento è importante tanto e quanto gli altri.
La morte, vista come la fine di tutto – anche una separazione o la fine di un lavoro sono considerati dei veri e propri lutti a livello emotivo – ci ha sempre fatto scappare, addirittura pensando di non poterci scherzare su, come se non parlandone, lei non si accorgesse che siamo ancora in vita.
Quando arriva sotto ogni sua forma, però, lascia con molti interrogativi, il maggiore di tutti: “perché?” Perché è successo proprio a me? Perché così presto? Perché si muore?
Le reazioni davanti alla morte sono varie, dalla rabbia al vittimismo, entrambi modi di non accettare l’avvenimento, di vivere nell’eterno passato, aggrappandoci ai ricordi e farli vivere come fossero il nostro presente, senza un motivo per poter andare avanti.
Le fasi del lutto, lo sappiamo, sono cinque: rifiuto e negazione, rabbia, patteggiamento o contrattazione, depressione e accettazione. Per quanto possano durare, arriva sempre il momento in cui aggrapparci al passato fa più male che lasciarlo andare, così ci liberiamo.
Ora in nostro soccorso possono venire psicologi, psichiatri, terapeuti, ma secoli e secoli fa gli uomini si aggrappavano a quello che era il Destino.
Nei miti nordici l’inconscio è rappresentato dal Pozzo del Tempo, dove sono contenute tutte le nostre azioni passate. È da qui che le tre Norne, coloro che controllano il Destino, prendono l’acqua e annaffiano costantemente l’Albero della Vita; i frutti che mangiamo, ciò che ci accade, è semplicemente frutto, appunto, del nostro passato.
Per i popoli orientali, che seguono i Veda, questa si chiama legge del Karma, dove la parola sanscrita vuol dire proprio “agire”. E anche se la new age occidentale ama parlare di karma negativo e positivo, in realtà in origine viene chiamato: kusala (trad. karma intelligente) e akusala (karma non intelligente). Il primo sono le azioni ponderate, finalizzate al bene, che hanno un obiettivo di crescita personale e collettiva; le seconde sono le scelte impulsive, dettate dai guna (emozioni che influenzano le nostre azioni) più bassi e che provocano solo piacere egoico.
Insomma, il vittimismo era così sconfitto da entrambi questi pensieri: non possiamo prendercela con nessuno se non con noi stessi, e se vogliamo avere diversi frutti, bisogna cambiare il modo di agire.
Da qui subito la domanda: “ma che male può aver fatto un bambino di due, tre anni per meritare una qualsiasi giustizia divina?”
Ai tempi, e ancora adesso in diversi credo, arriva in soccorso la reincarnazione, proprio perché, come detto prima, è stato fin da subito chiaro che l’energia non si crea, né si distrugge: si trasforma.
Se per gli orientali il Destino diviene così controllato da noi stessi, per la mitologia nordica e occidentale, esso è controllato dalle tre Norne (per i latini sono le Fatae, per i greci le Moire) a cui tutti, anche gli dèi, devono sottostare.
Per i popoli nordici Urd è colei che si occupa di tessere il filo del destino, e rappresenta il passato; Verdandi arrotola il filo, in rappresentazione del presente e Skuld lo recide, rappresentando così il futuro. Vivono sotto le radici di Yggdrasil (l’Albero della Vita di cui abbiamo parlato prima) non hanno nulla contro un umano o un Dio, sono solo coloro che si prendono cura del nostro giardino, ma siamo noi i padroni e l’acqua che prendono è la nostra più totale responsabilità.
Proprio come in un’immensa foresta, ogni Albero personale è collegato – sia con le radici che con i rami – con quelli vicini. Nascono così i concetti di karma famigliare, nazionale e universale, a cui Jung avrebbe poi dato il nome di inconscio collettivo.
Ecco che fin da subito le nostre azioni non riguardano più solo noi stessi, ma anche chi ci circonda e a effetto domino, l’intera razza umana. Nessuna frase è più azzeccata di quella di Gandhi: “Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”, insomma.
Ma se sono le Norne a decidere del nostro destino, come possiamo stare sotto libero arbitrio?
La filosofia di chi sta scrivendo è piuttosto brutale: il libero arbitrio non esiste. O meglio, non finché non cominciamo a parlare direttamente al nostro inconscio, obiettivo abbastanza difficile da raggiungere. Come spiegato sempre nell’articolo di Inside Out, noi siamo come Riley: robottini che ricevono ordini dal quartier generale. Sono le nostre emozioni a guidarci, anche se non dovrebbero: è nostro compito prendere il comando.
In effetti anche i popoli antichi si sono posti questa domanda: se le Norne innaffiano il mio albero con le scelte passate, come posso cambiare acqua? Solo mutando le mie decisioni, i miei pensieri? E come fare per l’impulsività?
Nasce così il concetto di astrologia, assolutamente non inteso come ora. Alla sua nascita era un linguaggio del tutto simbolico – avevano già capito, infatti, che l’inconscio ha una logica che ha poco a che vedere con quella razionale – che descrive secondo dei modelli la possibile vita del nascituro.
La mappa astrale – che consultavano i più grandi imperatori, sacerdoti e che tuttora è molto considerata a certi livelli, vi piaccia o no ammetterlo – è una vera e propria mappa: indica i nostri limiti, le nostre potenzialità, i doni e i talenti che l’Universo ci ha consegnato alla nascita (se vi è venuta in mente la scena dei Re Magi: bravi!) ma che sta a noi saper come sfruttare.
Consultando attentamente gli aspetti, l’astrologo metteva in guardia da possibili sfide, passioni, intrighi e anche dalla propria morte, a cui – ovviamente – non si poteva sfuggire, qualsiasi fossero le accortezze scelte per scampare al pericolo.
Fatto divertente: in astrologia la morte è associata all’ottava casa, quella rappresentata dall’ottavo segno zodiacale: lo Scorpione, che inizia a dominare i nostri cieli proprio dalla fine di ottobre. Il pianeta associato alla morte è Plutone, governato appunto dallo Scorpione. L’archetipo dello Scorpione è quello del distruttore: colui che deve accettare e comprendere il cambiamento, la morte e il dolore a essi associati al fine di trasformarsi.
“Come in cielo, così in terra”
Questo periodo dell’anno oltre ad aiutarci ad accettare la morte, concludeva anche il ciclo del raccolto, e tutti – in particolare chi coltivava le terre – cominciavano a prepararsi per il prossimo.
Samhain, celebrato il 31 ottobre, era un vero e proprio capodanno, dove il passato lasciava il posto al futuro, proprio osservando il presente.
Si meditava a fondo su ciò che si aveva ottenuto, si ringraziava per l’arrivo del nuovo, e per il vecchio che era andato via, e si appuntavano mentalmente i propri desideri di cambiamento, in modo tale che si cominciasse a lavorare.
Insomma, fin da sempre l’umanità ha preferito non pensare troppo a cosa fosse la morte o perché accadesse, concentrandosi maggiormente sull’accettazione del proprio destino e sul lavorare dall’interno per avere maggior benessere all’esterno.
Scelta molto saggia dei nostri antenati, perché che cos’è dopotutto la morte, se non un semplice cambiamento?
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