Nato a Verona il 6 ottobre 1937, Mario Capecchi è un genetista che nel 2007 vinse il premio Nobel. La sua straordinaria vita, però, non merita di esser narrata solo per questa ragione. Egli ha vissuto la sua infanzia durante il pieno periodo dell’Italia fascista sopravvivendo anche quando tutto gli si abbatteva contro.
Egli nacque da una relazione non coniugale tra il militare Luciano Capecchi, un uomo di cui serva un pessimo ricordo, e la poetessa e docente Lucy Ramberg. La donna, italo-americana, a causa dei suoi pensieri sovversivi e della sua origine, è stata per anni rinchiusa all’intero di un campo di concentramento. Lo stesso Mario ha sottolineato la bellezza di sua madre e quanto questa debba esserle costata durante gli anni di prigionia. Del resto, proprio grazie a lei e alla sua fragile psiche post-guerra lui ha desiderato studiare per poter diventare un medico in grado di aiutarla.
Nel 1939, la madre aveva dato alla luce la sua sorellastra, Marlene, che venne data in adozione nel 1941 perché non era possibile riuscire a provvedere al suo mantenimento. I due fratellastri si sono incontrati solo nel 2008, grazie alle indagini dei giornalisti Stephan Pfeihoger e Isabelle Hansen, redattori del quotidiano Dolomiten.
Nel 1940, ripercorrendo la sua storia, il padre fu inviato in Libia come mitragliere contraereo, rimase disperso durante un’operazione. Mario ha un pessimo ricordo dell’uomo, forse fin troppo iracondo come del resto viene rappresentato all’interno del film Hill of Vision (in sala in questi giorni).
Quando aveva solo cinque anni Lucy Ramberg venne arrestata a causa delle sue relazioni con i circoli poetici francesi antifascisti. Dopo l’emanazione delle leggi razziali, la donna aveva iniziato a scrivere e pubblicare opuscoli partigiani. Fu dunque arrestata dalla Gestapo e trasferita nel Reich come prigioniera politica. Consapevole del rischio imminente nel quale stava intercorrendo, prima dell’arresto, Lucy era riuscita ad affidare Mario alle cure di una famiglia di contadini a sud di Bolzano. Aveva fornito loro i mezzi per poter cercare di mantenere il piccolo, ma le ristrettezza del tempo di guerra consumarono rapidamente il denaro destinato al bambino. Mario, solo dopo un anno, venne abbandonato dalla famiglia adottiva e per tale ragione iniziò a vivere vagabondando tra Bolzano e Verona fino a quando non entrò in una banda di ragazzini di strada. Con loro iniziò a sopravvivere alla giornata rubacchiando e chiedendo la carità, fino a quando nel 1945 non iniziò a stare male a causa del tifo. La malattia impietosì uno sconosciuto che lo portò al sanatorio di Reggio Emilia, luogo nel quale fu raggiunto dalla madre una volta conclusa la guerra.
All’età di soli otto anni iniziò la sua rinascita. Dopo tutti gli orrori, grazie al fratello della madre, Mario ebbe la possibilità di cominciare da capo il suo percorso. Arrivato in America, terra natia della madre, dovette imparare in un solo mese a leggere e a scrivere in inglese. Henry, lo zio, era un professore di fisica presso l’Università di Princeton ed era collega di Albert Einstein.
La località nella quale si trasferì, approdato nel nuovo mondo, si chiamava Hill of Vision – nome che fa da titolo al film biografico – ed era una comunità quacchera. Il regista Roberto Faenza, avendo parlato con Mario in persona, ha voluto sottolineare quanto importante sia stata questa comunità per la vita del giovane. Gli zii si schierano, addirittura, contro la guerra del Vietnam finendo nei lager americani durante il periodo di proteste.
Il primo periodo di approdo all’interno della comunità americana non fu decisamente facili. Il giovane Mario non riusciva a canalizzare le sue energie nel modo più costruttivo possibile, perché fin troppo abituato alla vita da strada. Grazie al wrestling, però, egli riuscì a canalizzare la sua rabbia e la sua forza trovando un nuovo obiettivo per il corso della sua vita. Ispirato, infatti, dagli studi dello zio, complice anche la fragilità della psiche della madre, il ragazzo decise in giovane età di studiare per poter esser in grado di salvare la donna. Nel piccolo Antioch College conseguì la laurea in chimica e fisica, venendo poi ammesso all’Università di Harvard nel 1967.
Ad Harvard ebbe modo di incontrare uno degli scopritori della struttura del DNA: James Watson, vincitore del primo Nobel per la medicina nel 1962, fu anche tutor della sua tesi di laurea.
Nel 1969 divenne assistente presso i Dipartimento di Biochimica della Harvard School of Medicine; un paio d’anni dopo venne nominato professore associato. Nel 1973 si trasferì nell’Università dello Utah.
Dal 1988, collabora con l’Howard Hughes Medical Institute ed è, inoltre, membro della National Academy of Science.
Nel 2003 Capecchi ha ricevuto il Premio Internazionale Fondazione Pezcoller-AACR per i risultati della sua ricerca sul cancro. Lo scienziato ha affinato, nel suo laboratorio, l’applicazione della mutagenesi mirata nelle cellule staminali. Scoperta che dopo qualche anno lo porterà al Nobel, ma non solo. La sua tecnologia ha generato miglia di “topi knockout”, nei laboratori di tutto il mondo, così è stato possibile approdare su nuove osservazioni e nuove intuizioni. La generazione di modelli del cancro umano nel top ha portato un impatto enorme nella ricerca su questa malattia.
Nel 2007, come stavamo appunto dicendo, ha ricevuto il premio Nobel per la medicina grazie alle sue scoperte e ai suoi studi. Insieme ai colleghi Martin Evans e Oliver Smithies, ha messo a punto nuove tecniche che permettono di generare animali caratterizzati dall’assenza di uno specifico gene. Attraverso le cellule staminali è possibile individuare alcuni genomi responsabili di mutazioni genetiche. Il Gene Targeting dunque, permetterebbe di “costruire” topi portatori di mutazioni generiche. Un approccio rivelatosi fondamentale per lo studio in vivo della funzione dei geni. Questa tecnica contribuisce in modo significativo allo studio di malattie come il cancro, oltre che o studio dei processi di embriogenesi.
Mario Capecchi ha, dunque, rivoluzionato la biologia moderna.
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