Iniziamo quindi con la spiegazione del dodicesimo canto, stiamo nel VII cerchio, al primo girone, quello dei violenti contro il prossimo.
venimmo, alpestro e, per quel v’er’ anco,
tal, ch’ogne vista ne sarebbe schiva.
Qual è quella ruina che nel fianco
di qua da Trento l’Adice percosse,
o per tremoto o per sostegno manco,
che da cima del monte, onde si mosse,
al piano è sì la roccia discoscesa,
ch’alcuna via darebbe a chi sù fosse:
cotal di quel burrato era la scesa;
e ‘n su la punta de la rotta lacca
l’infamïa di Creti era distesa
che fu concetta ne la falsa vacca;
e quando vide noi, sé stesso morse,
sì come quei cui l’ira dentro fiacca.
In questi primi versi, oltre alla descrizione di un ambiente impervio, -una discesa simile alla frana che colpì le sponde dell’Adige-, Dante ci introduce il Minotauro, figura mitologica con corpo d’uomo e testa di toro. Il Minotauro rappresenta quella forza brutale dentro di noi, che al pari di una bestia selvatica, scatta nel pieno dell’impulsività solo per proteggersi. Quante volte, infatti, diventiamo aggressivi contro un eventuale pericolo, anche se non si è mai palesato effettivamente? Quella stessa rabbia, normalissima per la condizione umana, però, fa più male a noi stessi che agli altri. Infatti: “E quando vide noi, sé stesso morse,/sì come quei cui l’ira dentro fiacca”. Questa enorme belva, insomma, invece di aggredire i due, spreca le sue energie mordendosi e facendosi del male.
Lo savio mio inver’ lui gridò: «Forse
tu credi che qui sia ‘l duca d’Atene,
che su nel mondo la morte ti porse?
Pàrtiti, bestia, che questi non vene
ammaestrato da la tua sorella
ma vassi per veder le vostre pene».
Virgilio non mantiene la calma, ma invece di essere aggressivo fisicamente, lo fa con le parole, urlando. Noi ci immaginiamo un Virgilio austero, che intimorisce la belva con il suo tono alto. Lo ammonisce -forse dandogli un po’ dello stupido- facendogli notare che Dante non è Teseo, e di certo non è qui per volere di Arianna, ma solo per vedere le pene delle persone lì condannate.
Qual è quel toro che si slaccia in quella
c’ha ricevuto già ‘l colpo mortale,
che gir non sa, ma qua e là saltella,
vid’io lo Minotauro far cotale;
e quello accorto gridò: «Corri al varco;
mentre ch’e’ ‘nfuria, è buon che tu ti cale».
Così prendemmo via giù per lo scarco
di quelle pietre, che spesso moviensi
sotto i miei piedi per lo novo carco.
Io già pensando; e quei disse: «Tu pensi
forse a questa ruina, ch’è guardata
da quell’ira bestial ch’i’ ora spensi.
Or vo’ che sappi che l’altra fïata
ch’i’ discesi qua giù nel basso inferno,
questa roccia non era ancor cascata.
Ma certo poco pria, se ben discerno,
che venisse colui che la gran preda
levò a Dite nel cerchio superno,
da tutte parti l’alta valle feda
tremò sì, ch’i’ pensai che l’universo
sentisse amor, per lo qual è chi creda
più volte il mondo in caòsso converso;
e in quel punto questa vecchia roccia,
qui e altrove, tal fece riverso.
Ma ficca li occhi a valle, ché s’approccia
la riviera del sangue in la qual bolle
qual che per vïolenza in altrui noccia».
Intanto scopriamo che la frana su cui stanno non era presente quando Virgilio arrivò lì per la prima volta, ma che si formò dopo la morte -e prima della resurrezione- del Cristo. Spiegato ciò, Virgilio fa voltare Dante, facendoli notare il fiume di sangue -il Flegetonte- dove sono sommerse tutte le anime che hanno fatto del male al prossimo.
Oh cieca cupidigia e ira folle,
che sì ci sproni ne la vita corta,
e ne l’etterna poi sì mal c’immolle!
Io vidi un’ampia fossa in arco torta,
come quella che tutto ‘l piano abbraccia,
secondo ch’avea detto la mia scorta;
e tra ‘l piè de la ripa ed essa, in traccia
corrien centauri, armati di saette,
come solien nel mondo andare a caccia.
Dante osserva l’ampio fiume a forma di arco che circonda tutto il cerchio. Immaginatevi lo scenario più terrificante: il rosso del sangue che inghiotte le anime dannate e che è controllato da Centauri. Proprio come nel loro modo tipico di cacciare, corrono lungo le sponde armati di saette. Il sangue è ovviamente simbolo di forza vitale, e non a caso ci sono sommerse le anime che hanno fatto del male al prossimo.
Veggendoci calar, ciascun ristette,
e de la schiera tre si dipartirono
con archi e asticciuole prima elette;
e l’un gridò da lungi: «A qual martiro
venite voi che scendete la costa?
Ditel costinci; se non, l’arco tiro».
Lo mio maestro disse: «La risposta
farem noi a Chiròn costà di presso:
mal fu la voglia tua sempre sì tosta».
Vedendoli, tre dei Centauri minacciano i due. Virgilio stavolta è più calmo; da notare che la scena si ripete, come in una sorta di spirale, ma con minore intensità. Alla prima minaccia, Virgilio urla. Alla seconda parla normalmente, ma sminuisce comunque il Centauro, dicendogli che dirà tutto a Chirone. Forse è bene leggere l’articolo sulla mitologia di quest’ultimo, per capire il perché Virgilio lo tenga così in considerazione.
Poi mi tentò, e disse: «Quelli è Nesso,
che morì per la bella Deianira,
e fé di sé la vendetta elli stesso.
E quel di mezzo, ch’al petto si mira,
è il gran Chiròn, il qual nodrì Achille;
quell’altro è Folo, che sì pien d’ira.
Dintorno al fosso vanno a mille a mille,
saettando qual anima si svelle
del sangue più che sua colpa sortille».
Virgilio li “presenta” a Dante. Attenzione, ricordiamoci che come nei sogni, ogni personaggio che incontriamo altro non è che una parte di noi stessi. Nesso è il centauro che innamoratosi di Deianira, tenta di rapirla. Ercole lo uccide, ma poco prima Nesso aveva dato alla sua amata la tunica con del sangue avvelenato che ucciderà Ercole stesso. Nesso è quindi più un simbolo di ira per vendetta. Poi abbiamo Chirone, di cui abbiamo già parlato, e Folo, il centauro più violento, perché scatenò la guerra con i Lapiti. Il loro compito è quello di colpire le anime che tentano di uscire dall’immersione del sangue. Difatti, più è grande la loro colpa, più devono rimanere immerse nel fiume rosso, questo lo vedremo bene poi.
Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle:
Chiròn prese uno strale, e con la cocca
fece la barba in dietro a le mascelle.
Quando s’ebbe scoperta la gran bocca,
disse a’ compagni: «Siete voi accorti
che quel di retro move ciò ch’el tocca?
Così non soglion fa li piè d’i morti».
E ‘l mio buon duca, che già li er’al petto,
dove le due nature son consorti,
rispuose: «Ben è vivo, e sì soletto
mostrar li mi convien la valle buia;
necessità ‘l ci ‘nduce, e non diletto.
Chirone si è accorto che Dante è una persona viva, e si chiede cosa ci faccia nel mondo dei morti. Virgilio conferma le parole di Chirone, e comincia a spiegare che vagano per l’Inferno non certo per divertimento, ma per dovere. Una delle frasi che diciamo spesso a chi vuole intraprendere il cammino interiore, è proprio qualcosa di simile: “Non è per niente facile, è un lavoro difficile, atroce, ma l’unico che bisogna fare per poter incontrare chi siamo realmente”.
Tal si partì da cantare alleluia
che mi commise quest’officio novo:
non è ladron, né io anima fuia.
Ma per quella virtù per cu’io movo
li passi miei per sì selvaggia strada,
danne un de’ tuoi, a cui noi siamo a provo,
e che ne mostri là dove si guada,
e che porti costui in su la groppa,
ché non è spirto che per l’aere vada».
Chiròn si volse in su la destra poppa,
e disse a Nesso: «Torna, e sì li guida,
e fa cansar s’altra schiera v’intoppa».
Come spesso accade, non sempre il nostro Maestro può aiutarci nel nostro viaggio interiore. Così Virgilio, dopo aver spiegato la volontà di Beatrice, chiede a Chirone di dare loro uno dei loro Centauri a far da guida, visto il faticoso cammino e visto che Dante non può attraversare il fiume, non potendo volare. Chirone ordina così a Nesso di andare con loro, guidarli e scansare chiunque si metta loro davanti.
Or ci movemmo con la scorta fida
lungo la proda del bollor vermiglio,
dove i bolliti facieno alte strida.
Io vidi gente sotto infino al ciglio;
e ‘l gran centauro disse: «E’ son tiranni
che dier nel sangue e ne l’aver di piglio.
Quivi si piangon li spietati danni;
quivi è Alessandro, e Dïonisio fero
che fé Cicilia aver dolorosi anni.
E quella fronte c’ha ‘l pel così nero,
è Azzolino; e quell’altro ch’è biondo,
è Opizzo da Esti, il qual per vero
fu spento dal figliastro su nel mondo».
Allor mi volsi al poeta, e quei disse:
«Questi ti sia or primo, e io secondo».
Poco più oltre il centauro s’affisse
sovr’una gente che ‘nfino a la gola
parea che di quel bulicame uscisse.
Mostrocci un’ombra da l’un canto sola,
dicendo: «Colui fesse in grembo a Dio
lo cor che ‘n su Tamigi ancor si cola».
Poi vidi gente che di fuor del rio
tenean la testa e ancor tutto ‘l casso;
e di costoro assai riconobb’io.
Così a più a più si facea basso
quel sangue, sì che cocea pur li piedi;
e quindi fu del fosso il nostro passo.
La visita prosegue fino al punto in cui sono condannate le anime immerse fino alla gola. Più si prosegue, più il fiume diventa meno profondo, fino a far arrivare il sangue solo ai piedi. Ovviamente la profondità del sangue indica la maggiore o minore gravità del peccato.
«Sì come tu da questa parte vedi
lo bulicame che sempre si scema»,
disse ‘l centauro, «voglio che tu credi
che da quest’altra a più a più giù prema
lo fondo suo, infin ch’el si raggiunge
ove la tirannia convien che gema.
La divina giustizia di qua punge
quell’Attila che fu flagello in terra,
e Pirro e Sesto; e in etterno munge
le lagrime, che col bollor diserra,
a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo,
che fecero a le strade tanta guerra».
Poi si rivolse e ripassossi ‘l guazzo.
Nesso continua con la spiegazione, dicendo che dopo essersi abbassato, il fiume si ricongiunge al punto opposto, dove è molto più profondo e dove i tiranni sono puniti con maggiore intensità. Dopo aver spiegato tutto ciò ed essere arrivati sull’altra sponda, Nesso torna verso il suo punto di partenza.
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