Non so bene come si inizia un articolo di questo tipo, ma voglio scriverlo.
Chi più e chi meno, tutte e quattro abbiamo trattato sul blog alcuni degli argomenti che ci stanno più a cuore, e non solo in “Pensieri”; anche quando parliamo di anime o libri, di costume e società o di storie romane, infatti, mettiamo sempre un pezzo di noi.
Però è una cosa è certa: gli articoli più personali li abbiamo scritti in questa etichetta, parlando in prima persona e mettendoci completamente a nudo.
Magari all’esterno potrà sembrare facile e ammetto che io per prima ho più volte pensato erroneamente che lo sia, ma la verità è che scrivere certi articoli è una gomitata nello stomaco, soprattutto se il contenuto di questi è così intimo.
L’ho già detto in “Quindici”: quando si parla di queste cose le critiche sono dietro l’angolo e la maggior parte delle persone nella mia vita non sa nemmeno che io abbia determinati problemi.
E li chiamo “problemi” perché – per quanto vorrei non fosse così – in repertorio non ho un disturbo alimentare, ma quattro.
In questo articolo non darò un nome a tutti e quattro i disturbi alimentari che mi perseguitano da ben quattordici anni (solo scrivendolo mi rendo conto che quattordici anni sono letteralmente una vita)… se non mi vergogno della bulimia, dell’anoressia e del binge eating, il quarto è un segreto che custodisco gelosamente. L’ho nominato una volta a bruciapelo in uno degli otto gruppi che ho con Frè, Aida e Manu (non fate domande sul perché creiamo gruppi su gruppi in cui siamo sempre e solo noi quattro) e non credo che lo farò più.
O comunque sicuramente non ho intenzione di farlo molto presto.
Devo dirlo sinceramente: so che voglio scrivere ma non ho la più pallida idea da dove iniziare.
Escluse le mie amicizie strette (che si contano esattamente sul palmo di una mano), quando condivido una qualsiasi cosa personale vuol dire che 1) ne sono già uscita o 2) sono già a buon punto del percorso.
Con questa cosa dei DCA non sono da nessuna parte, mi sento come una persona che fluttua in uno spazio vuoto, e quando provo a fluttuare in un qualsiasi punto, anche se per un periodo sembra che vada meglio, in realtà non va mai meglio.
Mi fa arrabbiare tantissimo, e a volte penso di non avere nemmeno la volontà di volerne uscire, almeno non veramente: ho fatto quattro anni di terapia dai quattordici ai diciotto anni e da un anno vengo seguita da una psichiatra e da un’altra psicologa, eppure mi sembra di rimanere sempre ferma nello stesso punto da quando ho otto anni.
Credo che il motivo sia la (finta) sicurezza che mi danno la metodicità e gli schemi utilizzati, perché non prendiamoci in giro: almeno per me anoressia e bulimia dopo quattordici anni tutto sono tranne che impulsive e dettate dalle emozioni del momento, anoressia e bulimia (che mi rifiuto categoricamente di chiamare Ana E Mia, perché i soprannomi si danno alle amiche e loro non lo sono) dopo quattordici anni diventano esattamente come delle persone – o entità – che camminano al tuo fianco in ogni momento della tua vita.
Odio doverlo ammettere, ma una parte malata di me trova tutto questo rassicurante.
Vorrei poter dire che so perfettamente quando utilizzare un’entità piuttosto che un’altra a mio piacimento, ma in realtà sono più loro che decidono quando prendere il comando di Silvia quando devono, sono loro che parlano in determinati momenti della mia vita e, tra loro e vari altri problemucci con cui convivo, ammetto che mi sono chiesta e mi chiedo spesso quante volte sia effettivamente Silvia a parlare. La risposta solitamente non è soddisfacente.
Poi per carità, ho la fortuna immensa di avere delle amiche che mi amano nonostante tutto e sono immensamente grata di ciò: con loro non mi sento mai a disagio quando devo mangiare, non mi forzano mai a farlo e non mi giudicano quando passo le giornate campando di caffè, acqua e aria, ma riconosco che, anche se mi amano comunque, io mi sto precludendo un’infinità di emozioni ed esperienze positive a causa di questi mostri che mi porto dietro.
Sì, perché anche se mi tengo ben lontana dalle applicazioni per tracciare quel che mangio e non guardo più il retro di nessuna scatola per contare le calorie, so bene che i valori nutrizionali di tutto quel che ho mangiato nella mia vita sono inseriti in una sorta di database che tengo in un angolino del mio cervello e – anche se sto ben attenta a non farlo notare – so bene che nel momento in cui mangio qualcosa calcolo automaticamente tutto quello che calcolerebbe un’app, perché con il tempo ho programmato il mio cervello a fare quello che prima faceva il mio telefono.
Non so esattamente dove voglio andare a parare e molto onestamente? Non credo nemmeno che un discorso debba per forza andare a parare da qualche parte; come ho già detto in numerosi altri articoli pubblicati in questa etichetta, queste per me sono più pagine di diario che altro. Tra l’altro, non penso nemmeno si possano riassumere in un articolo di relativamente pochi caratteri la genesi e gli sviluppi di una malattia e di un disturbo di qualsiasi tipo.
So però riconoscere che, per quanto sconsolata e ormai abituata a tutto ciò, anche solo scrivere e pubblicare un articolo in cui inizio a parlare dei piccoli comportamenti assunti nel tempo, è un primo passo – seppur piccolo – verso la vera e propria accettazione del problema.
Anche perché, parliamoci chiaro: è stancante. Vivere con un problema (che poi di fatto sono quattro tutti caratterizzati a modo loro) del genere è stancante, e dopo quattordici lunghissimi anni fatti di negazione e finti miglioramenti non vedo l’ora di andare avanti e lasciar andare.
“Lascia che i morti seppelliscano i loro morti” recita il Vangelo di Matteo (8,18-22).
Può non far piacere e anzi, in realtà non fa piacere accettare che prima o poi le cose che non ci servono più devono essere lasciate andare, ma seppur dolorosissimo e altrettanto faticoso, è così.
I morti che ci portiamo appresso, di qualunque natura essi siano, sono morti e non possono tornare in vita.
Ho perso il conto di tutte le volte che abbiamo ripetuto – in vari modi – quello che sto per ripetere per quella che sarà la centesima volta: le cose, le persone, le abitudini non possono darci la vita, niente di quel che può essere guardato e toccato può darci la vita.
Pensate voi allora se la vita può darcela un morto, qualcosa da buttare via.
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