Tratto dall’omonimo romanzo di Sandro Veronesi, apre la diciassettesima edizione della Festa del Cinema di Roma: Il Colibrì, film diretto da Francesca Archibugi. Una storia densa di drammaticità, ma che restituisce allo spettatore un certo senso di speranza e di accettazione.
Seguiamo le vicende di Marco Carrera (Pierfrancesco Favino), in un raccordo non lineare che ricostruisce i passi più salienti della sua vita. Un dolore che viene rievocato alla mente attraverso i suoi punti più difficili da superare, ma la vita va avanti e in un certo qual modo si deve riuscire ad accettare il suo lento e inesorabile andare. Marco è un uomo circondato da donne, che sembrano non essere destinate a restare a lungo presenti nella sua vita.
Vorremmo procedere con ordine nel cercare di fare il punto su questo film, ma è decisamente complicato non procedere per salti, esattamente come la storia stessa fa. Come, infatti, abbiamo voluto sottolineare, quelli che si aprono al pubblico, in tutto il loro dramma, sono dei lampi di memoria che focalizzano e cristallizzando momenti vissuti con estrema drammaticità. Fin dalla più tenera età, Marco si è lasciato descrivere dagli altri, lasciando che la sua fragilità (dapprima soprattutto fisica, successivamente prettamente emotiva) trasparisse in ogni sua più piccola azione.
Chiamato Colibrì da sua madre, a causa della sua corporatura esile, in molte lo hanno definito immobile, rendendo questa metafora un simbolo degli sforzi da lui compiuti per poter cercare di restare sempre nella stessa posizione. In realtà, il suo personaggio si muove durante l’intero arco narrativo. È vero, da una parte sembra quasi che si faccia vivere dagli eventi, ma ciò fa meglio emergere quella che è la sua emotività. Sbatte le ali, alla rinfusa, con forza, con vigore, in sacrificio delle persone che tanto ama. Sbatte le ali, le muove, resta apparentemente fermo, quando in verità sta solo annaspando alla ricerca di una qualche soluzione. Difficile riuscire a lottare contro gli eventi che gli si abbattono contro, facile farsi vivere dalla vita quando tutto si tinge di connotazioni così complicate da vivere.
Marco è un uomo che sopravvive alla perdita di una figlia, lotta per il proprio matrimonio, sacrifica il grande amore della sua vita, cerca di vivere per la nipote. Lutto dopo lutto, perdita dopo perdita, arriva alla consapevolezza che nonostante tutto ama la sua vita e, dignitosamente, vorrebbe che si concludesse.
Forse vi è un po’ troppo dramma nella poetica romanzata da Veronesi. Una musicalità che è stata tradita, su ammissione stessa della sceneggiatrice, nella trasposizione cinematografica, ma che viene esaltata dal suo ritmo scostante. Se questa storia avesse avuto un classico raccordo lo spettatore avrebbe trovato tutto un po’ monotono, ma questi sprazzi di lucido dolore permettono una più attenta analisi del suo personaggio e delle donne che gli vivono intorno. Forse Marco avrebbe potuto prendere delle scelte diverse, essere un po’ più felice, più ricco, più… più. Invece no, si rende conto che ha avuto tutto quello che desiderava e meritava. Nella sua fragilità, infatti, Favino porta in scena il dolore di un uomo che non deve essere di pugno per forza, non deve essere fermo nelle sue decisioni, non deve essere immobile nonostante gli altri lo vedano in questo modo.
Marco ha preso le sue scelte, perché sì… anche il sacrificio è una scelta. Ha scelto di credere nelle parole di sua moglie, ha scelto di riporre la fiducia negli amici, nella famiglia. Ha scelto. Stringendo sua nipote al petto non può fare a meno di venire a patti con quelle scelte comprendendole e accettandole.
Il Colibrì forse non è il dramma perfetto, forse poteva dare un po’ di più, ma la verità è che nella sua semplicità racconta una vita comune: quella di un uomo comune. Quella di una fragilità che più spesso dovrebbe avere una maggiore risonanza.
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