Continua il nostro viaggio alla scoperta della Divina Commedia dal punto di vista esoterico.
Oggi analizziamo il diciannovesimo canto del Purgatorio. Dopo l’attenta analisi del sogno di Dante da parte di Virgilio, incontreremo le anime degli avari e prodighi, facendo la conoscenza di uno di quesi: papa Adriano V.
Al solito, vi ricordiamo che analizziamo il canto solo ed esclusivamente dal punto di vista esoterico, comparandolo con quello che è stato ed è il nostro cammino spirituale. Questi articoli, insomma, servono solo come spunti di riflessione su noi stessi, dove ogni protagonista che incontriamo è una nostra parte.
È l’alba. Dante ancora dorme e in questo momento fa un sogno vivido. Durante il Medioevo si pensava che i sogni fatti all’inizio della giornata fossero strettamente legati alla verità, ecco perché Dante sente il bisogno di raccontarcelo.
In questo sogno vede una donna balbuziente, guercia, pallida e deforme. Insomma, non un bellissimo spettacolo. Ma quando inizia a parlare, tutta la sua figura inizia a trasfigurare: parla in maniera fluida, il suo incarnato prende un bellissimo colore e il portamento si fa dritto. Dice si essere una sirena e che il suo compito è quello di disorientare i marinai. Mentre parla si avvicina un’altra donna, che chiede a Virgilio di mostrare a Dante la vera forma della sirena. Questo le squarcia le vesti e per la puzza che esce, Dante si sveglia, riprendendo però il cammino in maniera molto curva con il costante pensiero di quel sogno in testa.
Camminando, passano davanti all’angelo che cancella la P dell’accidia dalla fronte di Dante, agita le ali e dice: “Beati coloro che piangono perché avranno le anime dominate dalla consolazione”, citando la terza beatitudine evangelica.
Dante, però, è così assorto nei suoi pensieri che sembra non accorgersi di tutto ciò, così Virgilio gli chiede cosa sia successo. Quando gli viene raccontato il sogno, la Guida gli spiega che la sirena personifica i peccati dei gironi superiori che sembrano allietanti agli occhi degli umani, come se non fossero niente di grave e per questo molto più subdoli da comprendere. Per liberarsi di loro, però, basta guardare oltre le illusioni, tenere la mente sempre rivolta verso Dio e proseguire con fiducia lungo il cammino.
Così Dante prende in parola Viriglio e comincia a camminare deciso.
Arriviamo a vedere come la figura deforme sia il simbolo dell’eccessivo amore per le cose terrene (avarizia, gola e lussuria). Dante che trasforma questa figura in un’incantevole sirena è l’umanità che vede in questi una sorta di possibilità al piacere, ingannando così la propria anima. La donna che arriva in aiuto è l’intervento di Dio che sollecita la ragione (Virgilio) e con la Verità mostra tutta la sporcizia del peccato.
Attenzione, quindi, quando vogliamo raccontarcela che un certo comportamento non ci reca nessun danno solo perché ci fa sentire bene nel momento in cui lo compiamo.
Al solito, quando vediamo le anime del Purgatorio, le osserviamo intende a espiare il loro peccato. In questo caso sono tutte rivolte verso terra, con le mani e i piedi legati. Piangono mentre recitano il versetto del Salmo 119: “L’anima mia è attaccata alla terra”. Come in vita sono stati legati ai beni materiali, così adesso sono costretti a rimanere sempre con lo sguardo verso il basso.
Virgilio chiede loro qual è la strada per proseguire, e un’anima indica loro il percorso. Come sempre Dante chiede il permesso alla Guida per poter parlare, e quando Viriglio glielo concede, il Sommo Poeta chiede all’anima di saperne di più di quando era in vita, e se vuole che una volta tornati dai vivi ci siano delle preghiere per lui.
L’anima risponde di essere stato papa Adriano V (nato Fieschi dei conti di Lavagna a Genova nel 1205 e morto a Viterbo nel 1276) e di aver ricercato per tutta la vita il potere. Divenuto papa, si è reso presto conto che neanche l’apice della carriera ecclesiastica riusciva a farlo stare tranquillo e in poco più di un mese di pontificato, ha capito che nella vita contava solo ricercare l’amore verso Dio.
Consiglia ai vivi di stare alla larga dall’avarizia, perché nessuna pena presente nel Purgatorio è più mortificante della loro: come il peccato li ha tenuti lontani da Dio e dall’amore, così loro ora devono rimanere fermi e con lo sguardo verso terra finché a Dio stesso piacerà.
A questo punto Dante si inginocchia, ma Adriano V gli chiede perché lo stia facendo. Quando Dante risponde che è per il fatto che ha davanti un papa, l’anima lo esorta a non cadere in tentazione perché dopo la morte ogni anima è uguale all’altra, senza alcuna distinzione di gerarchia o appartenenza alcuna, e questo lo si capisce bene dal Vangelo di Marco, capitolo 12 versetti dal 18 al 27.
Poi Adriano V manda via Dante, perché non vuole perdere tempo nella sua purificazione. Ricorda la nipote Alagia, certo che stia pregando per lui. Si augura che la donna rimanga sempre buona così come è la sua natura, e che non venga vinta dal cattivo esempio dei suoi parenti.
Questo canto è parallelo al canto XIX dell’Inferno, dove tra i simoniaci abbiamo incontrato Niccolò III. Quest’ultimo, proprio per sete di potere, ha fatto commercio delle cose sacre (come anche le indulgenze) per arricchire sé stessi e la famiglia. Ma qual è la vera differenza tra i due papi? Considerando che di certo Dante non poteva sapere se realmente uno si era pentito e l’altro no, probabilmente salva Adriano V per il bene vero Alagia, che conosceva personalmente e per darle più fiducia nelle sue continue preghiere.
Ci addentreremo di più nella questione degli avari e prodighi nel prossimo mese, quando affronteremo il canto XX.
Oggi analizziamo il diciannovesimo canto del Purgatorio. Dopo l’attenta analisi del sogno di Dante da parte di Virgilio, incontreremo le anime degli avari e prodighi, facendo la conoscenza di uno di quesi: papa Adriano V.
Al solito, vi ricordiamo che analizziamo il canto solo ed esclusivamente dal punto di vista esoterico, comparandolo con quello che è stato ed è il nostro cammino spirituale. Questi articoli, insomma, servono solo come spunti di riflessione su noi stessi, dove ogni protagonista che incontriamo è una nostra parte.
Ne l’ora che non può ‘l calor dïurno
intepidar più ‘l freddo de la luna,
vinto da terra, e talor da Saturno
- quando i geomanti lor Maggior Fortuna
veggiono in orïente, innanzi a l’alba,
surger per via che poco le sta bruna -,
mi venne in sogno una femmina balba,
ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta,
con le man monche, e di colore scialba.
Io la mirava; e come ‘l sol conforta
le fredde membra che la notte aggrava,
così lo sguardo mio le facea scorta
la lingua, e poscia tutta la drizzava
in poco d’ora, e lo smarrito volto,
com’ amor vuol, così le colorava.
Poi ch’ell’avea ‘l parlar così disciolto,
cominciava a cantar sì, che con pena
da lei avrei mio intento rivolto.
«Io son», cantava, «io son dolce serena,
che’ marinari in mezzo mar dismago;
tanto son di piacere a sentir piena!
Io volsi Ulisse del suo cammin vago
al canto mio; e qual meco s’ausa,
rado sen parte; sì tutto l’appago!».
Ancor non era sua bocca richiusa,
quand’una donna apparve santa e presta
lunghesso me per far colei confusa.
«O Virgilio, Virgilio, chi è questa?»,
fieramente dicea; ed el venìa
con li occhi fitti pur in quella onesta.
L’altra prendea, e dinanzi l’apria
fendendo i drappi, e mostravami ‘l ventre;
quel mi svegliò col puzzo che n’uscia.
Io mossi li occhi, e ‘l buon maestro: «Almen tre
voci t’ho messe!», dicea, «Surgi e vieni;
troviam l’aperta per la qual tu entre».
Sù mi levai, e tutti eran già pieni
de l’alto dì i giron del sacro monte,
e andavam col sol novo a le reni.
Seguendo lui, portava la mia fronte
come colui che l’ha di pensier carca,
che fa di sé un mezzo arco di ponte;
quand’ io udi’ «Venite; qui si varca»
parlare in modo soave e benigno,
qual non si sente in questa mortal marca.
Con l’ali aperte, che parean di cigno,
volseci in sù colui che sì parlonne
tra due pareti del duro macigno.
Mosse le penne poi e ventilonne,
‘Qui lugent’ affermando esser beati,
ch’avran di consolar l’anime donne.
«Che hai che pur inver’ la terra guati?»,
la guida mia incominciò a dirmi,
poco amendue da l’angel sormontati.
E io: «Con tanta sospeccion fa irmi
novella vision ch’a sé mi piega,
sì ch’io non posso dal pensar partirmi».
«Vedesti», disse, «quell’antica strega
che sola sovr’ a noi omai si piagne;
vedesti come l’uom da lei si slega.
Bastiti, e batti a terra le calcagne;
li occhi rivolgi al logoro che gira
lo rege etterno con le rote magne».
Quale ‘l falcon, che prima a’ pié si mira,
indi si volge al grido e si protende
per lo disio del pasto che là il tira,
tal mi fec’ io; e tal, quanto si fende
la roccia per dar via a chi va suso,
n’andai infin dove ‘l cerchiar si prende.
intepidar più ‘l freddo de la luna,
vinto da terra, e talor da Saturno
- quando i geomanti lor Maggior Fortuna
veggiono in orïente, innanzi a l’alba,
surger per via che poco le sta bruna -,
mi venne in sogno una femmina balba,
ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta,
con le man monche, e di colore scialba.
Io la mirava; e come ‘l sol conforta
le fredde membra che la notte aggrava,
così lo sguardo mio le facea scorta
la lingua, e poscia tutta la drizzava
in poco d’ora, e lo smarrito volto,
com’ amor vuol, così le colorava.
Poi ch’ell’avea ‘l parlar così disciolto,
cominciava a cantar sì, che con pena
da lei avrei mio intento rivolto.
«Io son», cantava, «io son dolce serena,
che’ marinari in mezzo mar dismago;
tanto son di piacere a sentir piena!
Io volsi Ulisse del suo cammin vago
al canto mio; e qual meco s’ausa,
rado sen parte; sì tutto l’appago!».
Ancor non era sua bocca richiusa,
quand’una donna apparve santa e presta
lunghesso me per far colei confusa.
«O Virgilio, Virgilio, chi è questa?»,
fieramente dicea; ed el venìa
con li occhi fitti pur in quella onesta.
L’altra prendea, e dinanzi l’apria
fendendo i drappi, e mostravami ‘l ventre;
quel mi svegliò col puzzo che n’uscia.
Io mossi li occhi, e ‘l buon maestro: «Almen tre
voci t’ho messe!», dicea, «Surgi e vieni;
troviam l’aperta per la qual tu entre».
Sù mi levai, e tutti eran già pieni
de l’alto dì i giron del sacro monte,
e andavam col sol novo a le reni.
Seguendo lui, portava la mia fronte
come colui che l’ha di pensier carca,
che fa di sé un mezzo arco di ponte;
quand’ io udi’ «Venite; qui si varca»
parlare in modo soave e benigno,
qual non si sente in questa mortal marca.
Con l’ali aperte, che parean di cigno,
volseci in sù colui che sì parlonne
tra due pareti del duro macigno.
Mosse le penne poi e ventilonne,
‘Qui lugent’ affermando esser beati,
ch’avran di consolar l’anime donne.
«Che hai che pur inver’ la terra guati?»,
la guida mia incominciò a dirmi,
poco amendue da l’angel sormontati.
E io: «Con tanta sospeccion fa irmi
novella vision ch’a sé mi piega,
sì ch’io non posso dal pensar partirmi».
«Vedesti», disse, «quell’antica strega
che sola sovr’ a noi omai si piagne;
vedesti come l’uom da lei si slega.
Bastiti, e batti a terra le calcagne;
li occhi rivolgi al logoro che gira
lo rege etterno con le rote magne».
Quale ‘l falcon, che prima a’ pié si mira,
indi si volge al grido e si protende
per lo disio del pasto che là il tira,
tal mi fec’ io; e tal, quanto si fende
la roccia per dar via a chi va suso,
n’andai infin dove ‘l cerchiar si prende.
È l’alba. Dante ancora dorme e in questo momento fa un sogno vivido. Durante il Medioevo si pensava che i sogni fatti all’inizio della giornata fossero strettamente legati alla verità, ecco perché Dante sente il bisogno di raccontarcelo.
In questo sogno vede una donna balbuziente, guercia, pallida e deforme. Insomma, non un bellissimo spettacolo. Ma quando inizia a parlare, tutta la sua figura inizia a trasfigurare: parla in maniera fluida, il suo incarnato prende un bellissimo colore e il portamento si fa dritto. Dice si essere una sirena e che il suo compito è quello di disorientare i marinai. Mentre parla si avvicina un’altra donna, che chiede a Virgilio di mostrare a Dante la vera forma della sirena. Questo le squarcia le vesti e per la puzza che esce, Dante si sveglia, riprendendo però il cammino in maniera molto curva con il costante pensiero di quel sogno in testa.
Camminando, passano davanti all’angelo che cancella la P dell’accidia dalla fronte di Dante, agita le ali e dice: “Beati coloro che piangono perché avranno le anime dominate dalla consolazione”, citando la terza beatitudine evangelica.
Dante, però, è così assorto nei suoi pensieri che sembra non accorgersi di tutto ciò, così Virgilio gli chiede cosa sia successo. Quando gli viene raccontato il sogno, la Guida gli spiega che la sirena personifica i peccati dei gironi superiori che sembrano allietanti agli occhi degli umani, come se non fossero niente di grave e per questo molto più subdoli da comprendere. Per liberarsi di loro, però, basta guardare oltre le illusioni, tenere la mente sempre rivolta verso Dio e proseguire con fiducia lungo il cammino.
Così Dante prende in parola Viriglio e comincia a camminare deciso.
Arriviamo a vedere come la figura deforme sia il simbolo dell’eccessivo amore per le cose terrene (avarizia, gola e lussuria). Dante che trasforma questa figura in un’incantevole sirena è l’umanità che vede in questi una sorta di possibilità al piacere, ingannando così la propria anima. La donna che arriva in aiuto è l’intervento di Dio che sollecita la ragione (Virgilio) e con la Verità mostra tutta la sporcizia del peccato.
Attenzione, quindi, quando vogliamo raccontarcela che un certo comportamento non ci reca nessun danno solo perché ci fa sentire bene nel momento in cui lo compiamo.
Com’io nel quinto giro fui dischiuso,
vidi gente per esso che piangea,
giacendo a terra tutta volta in giuso.
‘Adhaesit pavimento anima mea’
sentia dir lor con sì alti sospiri,
che la parola a pena s’intendea.
«O eletti di Dio, li cui soffriri
e giustizia e speranza fa men duri,
drizzate noi verso li alti saliri».
«Se voi venite dal giacer sicuri,
e volete trovar la via più tosto,
le vostre destre sien sempre di fori».
Così pregò ‘l poeta, e sì risposto
poco dinanzi a noi ne fu; per ch’io
nel parlare avvisai l’altro nascosto,
e volsi li occhi a li occhi al segnor mio:
ond’elli m’assentì con lieto cenno
ciò che chiedea la vista del disio.
Poi ch’io potei di me fare a mio senno,
trassimi sovra quella creatura
le cui parole pria notar mi fenno,
dicendo: «Spirto in cui pianger matura
quel sanza ‘l quale a Dio tornar non pòssi,
sosta un poco per me tua maggior cura.
Chi fosti e perché vòlti avete i dossi
al sù, mi dì, e se vuo’ ch’io t’impetri
cosa di là ond’io vivendo mossi».
Ed elli a me: «Perché i nostri diretri
rivolga il cielo a sé, saprai; ma prima
scias quod ego fui successor Petri.
Intra Sïestri e Chiaveri s’adima
una fiumana bella, e del suo nome
lo titol del mio sangue fa sua cima.
Un mese è poco più prova’ io come
pesa il gran manto a chi dal fango il guarda,
che piuma sembran tutte l’altre some.
La mia conversïone, omè!, fu tarda;
ma, come fatto fui roman pastore,
così scopersi la vita bugiarda.
Vidi che lì non s’acquetava il core,
né più salir potiesi in quella vita;
per che di questa in me s’accese amore.
Fino a quel punto misera e partita
da Dio anima fui, del tutto avara;
or, come vedi, qui ne son punita.
Quel ch’avarizia fa, qui si dichiara
in purgazion de l’anime converse;
e nulla pena il monte ha più amara.
Sì come l’occhio nostro non s’aderse
in alto, fisso a le cose terrene,
così giustizia qui a terra il merse.
Come avarizia spense a ciascun bene
lo nostro amore, onde operar perdési,
così giustizia qui stretti ne tene,
ne’ piedi e ne le man legati e presi;
e quanto fia piacer del giusto Sire,
tanto staremo immobili e distesi».
Io m’era inginocchiato e volea dire;
ma com’ io cominciai ed el s’accorse,
solo ascoltando, del mio reverire,
«Qual cagion», disse, «in giù così ti torse?».
E io a lui: «Per vostra dignitate
mia coscïenza dritto mi rimorse».
«Drizza le gambe, lèvati sù, frate!»,
rispuose; «non errar: conservo sono
teco e con li altri ad una podestate.
Se mai quel santo evangelico suono
che dice ‘Neque nubent’ intendesti,
ben puoi veder perch’io così ragiono.
Vattene omai: non vo’ che più t’arresti;
ché la tua stanza mio pianger disagia,
col qual maturo ciò che tu dicesti.
Nepote ho io di là c’ha nome Alagia,
buona da sé, pur che la nostra casa
non faccia lei per essempro malvagia;
e questa sola di là m’è rimasa».
vidi gente per esso che piangea,
giacendo a terra tutta volta in giuso.
‘Adhaesit pavimento anima mea’
sentia dir lor con sì alti sospiri,
che la parola a pena s’intendea.
«O eletti di Dio, li cui soffriri
e giustizia e speranza fa men duri,
drizzate noi verso li alti saliri».
«Se voi venite dal giacer sicuri,
e volete trovar la via più tosto,
le vostre destre sien sempre di fori».
Così pregò ‘l poeta, e sì risposto
poco dinanzi a noi ne fu; per ch’io
nel parlare avvisai l’altro nascosto,
e volsi li occhi a li occhi al segnor mio:
ond’elli m’assentì con lieto cenno
ciò che chiedea la vista del disio.
Poi ch’io potei di me fare a mio senno,
trassimi sovra quella creatura
le cui parole pria notar mi fenno,
dicendo: «Spirto in cui pianger matura
quel sanza ‘l quale a Dio tornar non pòssi,
sosta un poco per me tua maggior cura.
Chi fosti e perché vòlti avete i dossi
al sù, mi dì, e se vuo’ ch’io t’impetri
cosa di là ond’io vivendo mossi».
Ed elli a me: «Perché i nostri diretri
rivolga il cielo a sé, saprai; ma prima
scias quod ego fui successor Petri.
Intra Sïestri e Chiaveri s’adima
una fiumana bella, e del suo nome
lo titol del mio sangue fa sua cima.
Un mese è poco più prova’ io come
pesa il gran manto a chi dal fango il guarda,
che piuma sembran tutte l’altre some.
La mia conversïone, omè!, fu tarda;
ma, come fatto fui roman pastore,
così scopersi la vita bugiarda.
Vidi che lì non s’acquetava il core,
né più salir potiesi in quella vita;
per che di questa in me s’accese amore.
Fino a quel punto misera e partita
da Dio anima fui, del tutto avara;
or, come vedi, qui ne son punita.
Quel ch’avarizia fa, qui si dichiara
in purgazion de l’anime converse;
e nulla pena il monte ha più amara.
Sì come l’occhio nostro non s’aderse
in alto, fisso a le cose terrene,
così giustizia qui a terra il merse.
Come avarizia spense a ciascun bene
lo nostro amore, onde operar perdési,
così giustizia qui stretti ne tene,
ne’ piedi e ne le man legati e presi;
e quanto fia piacer del giusto Sire,
tanto staremo immobili e distesi».
Io m’era inginocchiato e volea dire;
ma com’ io cominciai ed el s’accorse,
solo ascoltando, del mio reverire,
«Qual cagion», disse, «in giù così ti torse?».
E io a lui: «Per vostra dignitate
mia coscïenza dritto mi rimorse».
«Drizza le gambe, lèvati sù, frate!»,
rispuose; «non errar: conservo sono
teco e con li altri ad una podestate.
Se mai quel santo evangelico suono
che dice ‘Neque nubent’ intendesti,
ben puoi veder perch’io così ragiono.
Vattene omai: non vo’ che più t’arresti;
ché la tua stanza mio pianger disagia,
col qual maturo ciò che tu dicesti.
Nepote ho io di là c’ha nome Alagia,
buona da sé, pur che la nostra casa
non faccia lei per essempro malvagia;
e questa sola di là m’è rimasa».
Al solito, quando vediamo le anime del Purgatorio, le osserviamo intende a espiare il loro peccato. In questo caso sono tutte rivolte verso terra, con le mani e i piedi legati. Piangono mentre recitano il versetto del Salmo 119: “L’anima mia è attaccata alla terra”. Come in vita sono stati legati ai beni materiali, così adesso sono costretti a rimanere sempre con lo sguardo verso il basso.
Virgilio chiede loro qual è la strada per proseguire, e un’anima indica loro il percorso. Come sempre Dante chiede il permesso alla Guida per poter parlare, e quando Viriglio glielo concede, il Sommo Poeta chiede all’anima di saperne di più di quando era in vita, e se vuole che una volta tornati dai vivi ci siano delle preghiere per lui.
L’anima risponde di essere stato papa Adriano V (nato Fieschi dei conti di Lavagna a Genova nel 1205 e morto a Viterbo nel 1276) e di aver ricercato per tutta la vita il potere. Divenuto papa, si è reso presto conto che neanche l’apice della carriera ecclesiastica riusciva a farlo stare tranquillo e in poco più di un mese di pontificato, ha capito che nella vita contava solo ricercare l’amore verso Dio.
Consiglia ai vivi di stare alla larga dall’avarizia, perché nessuna pena presente nel Purgatorio è più mortificante della loro: come il peccato li ha tenuti lontani da Dio e dall’amore, così loro ora devono rimanere fermi e con lo sguardo verso terra finché a Dio stesso piacerà.
A questo punto Dante si inginocchia, ma Adriano V gli chiede perché lo stia facendo. Quando Dante risponde che è per il fatto che ha davanti un papa, l’anima lo esorta a non cadere in tentazione perché dopo la morte ogni anima è uguale all’altra, senza alcuna distinzione di gerarchia o appartenenza alcuna, e questo lo si capisce bene dal Vangelo di Marco, capitolo 12 versetti dal 18 al 27.
Poi Adriano V manda via Dante, perché non vuole perdere tempo nella sua purificazione. Ricorda la nipote Alagia, certo che stia pregando per lui. Si augura che la donna rimanga sempre buona così come è la sua natura, e che non venga vinta dal cattivo esempio dei suoi parenti.
Questo canto è parallelo al canto XIX dell’Inferno, dove tra i simoniaci abbiamo incontrato Niccolò III. Quest’ultimo, proprio per sete di potere, ha fatto commercio delle cose sacre (come anche le indulgenze) per arricchire sé stessi e la famiglia. Ma qual è la vera differenza tra i due papi? Considerando che di certo Dante non poteva sapere se realmente uno si era pentito e l’altro no, probabilmente salva Adriano V per il bene vero Alagia, che conosceva personalmente e per darle più fiducia nelle sue continue preghiere.
Ci addentreremo di più nella questione degli avari e prodighi nel prossimo mese, quando affronteremo il canto XX.




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