Tratto dall’omonimo romanzo, scritto da Delia Owens, il 13 ottobre arriva in sala la trasposizione di: La ragazza della palude, film diretto da Olivia Newman, con Daisy Edgar-Jones (l’avete già vista in Fresh) e Taylor John Smith.
Stranamente, al termine della visione della pellicola in anteprima, chi sta scrivendo questa recensione si è reso conto di esser particolarmente contento di non aver letto il libro. Conoscere la svolgimento di questa storia, infatti, ne avrebbe un po’ tolto il piacere della fruizione. Ovviamente, in questa recensione non terremo conto delle possibili differenze col romanzo, ma parleremo della pellicola nella sua interezza.
La ragazza della palude è una storia che si presta perfettamente allo schermo, grande o piccolo che sia. La sua narrativa, infatti, si coniuga perfettamente con ciò che viene visivamente proposto al pubblico. Il film parla proprio attraverso la sua fotografia e anche grazie alle espressioni della stessa attrice protagonista. La fotografia esalta la bellezza della palude e accentua il movimento delle mani sulla carta della protagonista. il tutto affinché sembri quanto più “naturale” e “naturalista” possibile.
Kya Clarke è praticamente un’eremita. Nel corso della sua vita è stata abbandonata da chiunque la dovesse amare: la madre è andata quando lei era piccola e mese dopo mese anche i fratelli sono scappati dalla furia che il padre riversava su di loro. Durante la sua infanzia, rimasta sola col padre ha imparato come non stargli tra i piedi vivendo all'unisono con la natura che la circondava, lontano dalla città e dalla civiltà. Solo raramente, per prendere qualche provvista, lei si era avvicinata al centro cittadino e pur avendo provato ad andare a scuola, non riusciva a integrarsi con i suoi pari.
Impara così, una volta che anche il padre se ne va, a sopravvivere completamente da sola. Solo un ragazzo le inizia a fare compagnia, non abita molto lontano da lei e si incontrano con le barche proprio in quel luogo che lei considera come casa. Ma la storia con Tate Walker si interrompe quando lui non torna dal college, confermando alla ragazza quanto sia destinata a essere abbandonata da tutti.
Sorvolando sugli altri aspetti della trama e sul reale svolgimento di quello che è il cuore motore della storia, vogliamo concentrarci sugli aspetti interessanti della caratterizzazione di Kya. Il suo personaggio, infatti, affascina totalmente lo spettatore, perché si trova faccia a faccia con qualcuno di selvaggio e incontaminato. Una donna che vive in tutt’uno con la natura tanto da volerla esplorare e volerla catalogare. Lei, nonostante la costante presenza del trauma dell’abbandono, ha mantenuto la stessa purezza di quando era poco più di una bambina, il che è paradossale dal momento in cui scopriamo alcune scomode verità.
Siamo stati totalmente rapiti dalla fabulazione scenica, perché con le sue due ore la pellicola sospende il mondo fuori dalla sala cinematografica. La palude è così immersiva che si viene coinvolti nel processo della ragazza in maniera totalizzante. Lei che da sempre è stata stigmatizzata e rigettata dalla società, lei che è sempre stata giudicata colpevole solo per il pregiudizio e per paura del diverso. Perché nonostante questa storia sia ambientata degli anni ’50, continuano a esserci ancora oggi i processi a mostri intenzionali pre-giudicati dall’opinione pubblica.
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