Mi sono perso di nuovo, mi trovo dentro una fitta foresta. I raggi del sole filtrano a malapena attraverso le folte chiome, lasciando i sentieri debolmente illuminati. Proseguo in questo marasma di vegetazione da giorni, il percorso battuto sembra sempre lo stesso e non riesco più a orientarmi.
Forse è uno di quei posti dal quale non puoi più tornare indietro una volta entrato, si può solo andare avanti. E proseguo ancora tra alberi, muschi, rocce, terriccio, liane, rovi e foglie. Avanzo ma non trovo uscita, giorno dopo giorno la luce svanisce e torna fioca all’alba, per poi svanire di nuovo quando ho già percorso chilometri senza in realtà fare neanche un passo.
Sulla mia pelle si riflette l’indifferenza del giorno e l’indifferenza delle stagioni, il menefreghismo di una costante inclinazione verso un’uscita che pare inesistente.
Tronchi marcescenti mi deridono, con il loro colore morente portato da quella vita che ha smesso di fiorire in loro. Lo stesso fanno le foglie secche, cadute al suolo dopo essere state soffiate via dall’indifferenza del vento che le ha avvicinate al sole solo per fare stramazzare al suolo.
Continuo a proseguire, pestando le foglie che si accartocciano sotto i miei piedi come carta che si frantuma. Ma il rumore delle foglie si fa sempre più lieve e sento delle percussioni tribali trascinate dal vento. Non capisco da dove viene questo suono, mi fermo ma non riesco a chiarire i miei dubbi. Sembrano intorno a me, ma intorno a me non c’è nient’altro che vegetazione.
"Dall'ombra avanzano le percussioni,
quel ritmo incessante della foresta,
i tamburi intensificano i loro suoni
nei rintocchi di una marcia funesta."
(Gianluca Boncaldo, Battiti della foresta).
Sento i battiti sempre più forti, la loro frequenza si fa più insistente e il volume aumenta lentamente. Intorno non vedo ancora niente, ma cerco comunque di scappare mentre il mio respiro inizia a farsi affannato. Ma i miei piedi sono saldi e ancorati al terreno. Dell’edera sta crescendo velocemente sulle mie scarpe e si sta arrampicando sui miei pantaloni, avvinghiandomi le gambe e stringendole saldamente.
Le percussioni divengono ancora più intense costringendomi a portare le mani alle orecchie per la sensazione di confusione che sto provando nella mia mente. Ma quei tamburi non smettono, non vengono minimamente attutiti, mentre l’edera si arrampica verso il mio busto immobilizzandomi sempre di più.
Mentre sento l’edera stringermi, lancio un urlo fragoroso e i tamburi aumentano di intensità.
Non posso fare altro che rimanere immobile. Serro le palpebre per non vedere l’edera che si arrampica, ma appena lo faccio mi sento cadere nel vuoto. Non sento più l’edera, ma le percussioni sono ancora presenti, anche se ovattate.
Sprofondo nel buio. I tamburi sono dentro la mia testa, la foresta è dentro la mia testa.
Nessun commento:
Posta un commento