Figlie della generazione nate da Mean Girls, vi chiamiamo tutte a rapporto. Prendete pop corn e copertine perché abbiamo trovato un’altra pellicola che sublima tutto il nostro lato vendicativo. Titolo di punta nelle ultime settimane su Netflix, complice anche il cast stellare che è stato scelto, Do Revenge apre ufficialmente la stagione autunnale, riscaldandoci con una storia fatta di psicopatia, arrivismo e vendetta (ovviamente).
La storia è delle più semplici: una ragazza si è appena trasferita in una nuova scuola. Lusso e Posh sono le parole d’ordine, i figli di papà regnano sulla gerarchia sociale e questo li spinge in una lotta quasi cannibale. Una delle nostre protagoniste è Drea (Camilla Mendes), una ragazza che ha dovuto lottare per poter riuscire a essere socialmente accettata che, però, è stata vittima di revenge porn: il suo ragazzo Max (Austin Abrams) ha reso pubblico un suo video sexy, umiliandola davanti tutta la scuola. Nonostante, infatti, la sua forza d’animo, il guardarsi reciprocamente le spalle del ceto alto la spinge lontano dalla catena alimentare. È in questo modo che Eleanor (Maya Hawke) entra in contatto con lei, diventando sua amica e complice in un piano vendicativo: svelare le carte di Max, che si è mostrato vittima della situazione e allo stesso tempo vendicarsi di Carissa (Ava Capri), ragazza che a detta di Eleonor le ha fatto outing.
Man mano che il piano prende piede, però, le carte di Eleonor vengono svelate: la ragazza è arrivata nella nuova scuola per potersi vendicare, in realtà, della stessa Drea.
Inizia così un turbinio di doppi giochi, in un crescendo pericoloso. Vengono messe a rischio le carriere scolastiche dei ragazzi che si muovono intorno all’intera vicenda perché entrambe le ragazze si spingono oltre ogni singolo limite. La vendetta, in questo modo, prende il via come una sorta di valanga, un vortice quasi senza fine che spingerà le due a rendersi conto delle loro similitudini.
Do Revenge mostra quanto in grado l’uomo possa spingersi nel meditare la propria vendetta. Emerge, infatti, la difficoltà di processo delle proprie emozioni. Quanto il dolore possa spingerci, se non correttamente elaborato, a compiere delle azioni di cui potremmo pentirci. Questa pellicola è un po’ un monito, un modo per poter cercare di ricordare a tutti noi che dobbiamo imparare a processare determinate emozioni. L’happy ending finale, infatti, è un po’ questo: metter da parte ogni sorta di risentimento per poter cercare di collaborare, anche se con un piano “malvagio” come in questo caso.
Come per Mean Girls, infatti, ci rendiamo conto che la vendetta non porta da nessuna parte: logora solamente noi stessi. Le donne, da sempre, all’interno dell’immaginario riescono a incarnarla molto meglio di quanto non facciano gli uomini. Ma d’altro canto, in questo film, la figura maschile viene totalmente schiacciata all’interno della sua stessa mascolinità. Vediamo come è facile prendere una o l’altra parte all’interno di questioni che potrebbero sembrare superficiali. È facile far passare come vittima l’uomo, solo perché piange meglio, mentre la donna “regge botta”. Ma ci rendiamo conto di quanto effettivamente marcio possa essere il tentativo di nascondersi dietro una sorta di Pink Washing: ovvero sposare le cause femministe, ma solo per poter cercare di mantenere un certo status.
Bisogna aprire gli occhi e far in modo che gli altri non abbiano il potere di decidere per noi. Bisogna stare attenti in chi si ripone la fiducia e in chi riesce a vincere attraverso il vittimismo. Perché, spoiler: i comportamenti dei personaggi in questa pellicola sono così affini tra loro, da rendere impossibile riuscire a tracciare davvero dei profili netti. Chi ha dei tratti narcisistici va a braccetto con chi invece ha tanto sentimentalismo e tanto vittimismo. I personaggi di questa pellicola appagano il reciproco ego ed edonismo attraverso ogni singola azione.
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