Era il 2017, un anno dopo la sua uscita, e proprio come la protagonista Moana -solo in italiano il nome è Vaiana- io vivevo una vita che agli occhi degli altri era perfetta, ma che per me era una prigione. Piccolo riassunto per chi non avesse il film: Vaiana è l’erede dell’isola Motunui, dove agli abitanti è sempre stato proibito andare oltre l’orizzonte del mare, nonostante il passato (sconosciuto alle nuove generazioni) da navigatori. Vaiana è sempre stata attratta dall’esplorare il mare e, anche se il sentimento è rimasto latente per anni, prossima all’elezione come capo villaggio, si libera da quella costrizione. Il testo della canzone descrive pienamente come mi sono sentita per anni e oggi voglio analizzarlo qui, perché come la voce di Chiara Grispo (Vaiana nelle canzoni) mi ha dato la forza di reagire, allo stesso modo mi auguro possa farlo con voi. Aggiungo solo che la versione originale ha come titolo: “How far I’ll go”, ora, chiedo pietà, ma secondo il mio modestissimo parere, la Disney in italiano è molto più matura rispetto alla versione originale inglese. Quindi ecco spiegato il perché voglio riportare il testo italiano.
Non pensate male: non ho mai avuto una famiglia che mi ha tarpato le ali. Non ho mai avuto coprifuoco o punizioni e da carattere ribelle, i pochi limiti che avevo in adolescenza, li ho sempre raggirati. Quindi perché mi sentivo prigioniera? Semplicemente perché io ho sempre voluto stare nel mondo dell’arte, tra scrittura, musica, teatro…ma nella mia famiglia l’arte non è mai stata considerata un vero e proprio lavoro. “Eh, ma poi che fai? Ma consideralo un hobby”. Nel 2017, a vent’otto anni, sognavo di vivere quella vita, di lasciare l’idea del “posto di lavoro fisso”. Avete presente quando vi dicono: “Fai i concorsi?” Ecco, io li avrei pure fatti, per quieto vivere, ma avrei festeggiato l’ipotetica vittoria con il suicidio. Svegliarsi tutti i giorni alla stessa ora, fare le stesse mansioni per quarant’anni… mi vedevo con un cappio al collo dopo sei mesi, figuriamoci.
In una famiglia dove “il posto fisso è tutto ciò che conta”, secondo voi, come può vivere una che ama l’instabilità, che adora svegliarsi la mattina senza sapere dove andrà a dormire la sera, che non le interessa minimamente il “e cosa metti in tavola? L’arte?” Ve lo dico io: con attacchi di panico quotidiani, ansia estrema, disturbi ossessivi e -come già detto prima- pensieri suicidi.
“Ma nell’arte va avanti chi ha le conoscenze, alle persone normali non succede mai di vivere con l’arte. Hai quasi trent’anni, smettila di sognare come gli adolescenti, che farai quando non potrai più contare suoi tuoi?” Ringrazio tantissimo tutte quelle persone che mi hanno fatto questi discorsi, perché hanno fatto in modo che la voglia di mollare tutto e vivere proprio d’arte crescesse sempre più forte. Se sono qui, viva e vegeta, a scrivere questo articolo, è per queste parole.
“L’acqua sembra chiamarmi a sé, per nome/ed io non so dov’è che andrò./Anche il vento mi sfiora e continua ad attrarmi/lo seguirò…/è un lungo viaggio quello che affronterò.”
Il viaggio in mare aperto spaventa, soprattutto se nessuno l’ha affrontato prima di te. Quando inizi sai benissimo che puoi incontrare la morte, ma non ti interessa. Ecco, mi sono sentita così: so perfettamente che buttandomi dal burrone posso sfracellarmi al suolo, ma se invece scoprissi che ho delle ali per volare? “Se non provi, non lo saprai mai”, così ho provato.
“Però tutti paiono felici/qui non cambiano mai niente/penso ti ci abituerai./Hanno quei bei volti sorridenti/sono sempre contenti/ed appartengo a loro, ormai. Posso comandare, lo dimostrerò/mi saprò adattare/se mi impegnerò/ma la voce dentro che grida: «No!»/cresce forte in me,”
Ringrazio la mia psicologa che quando le ho esternato questi miei dubbi mi ha risposto: “Tu hai la mente creativa, tu ragioni da scrittrice, per gli altri potrà pure andare bene, per te no. Se sai che una strada del genere ti porterà solo al suicidio, perché prenderla?” Già, perché? E perché gli altri continuavano ad augurarmela? Perché non mi mostravo per quella che ero, non mi conoscevano, non sapevano minimamente della voce in me che urlava (e urla) storie nuove, che crea personaggi, che dà immagini nette, pronte a essere scritte. A quella voce non interessa il parere della gente, della società, degli anni che ho, o dei limiti dell’editoria. Lei vuole scrivere. Punto. Lei si è incarnata su questa terra per scrivere. Sempre punto. È “l’amor che ditta dentro”, come direbbe Dante. Non tutti riescono a sentire la propria anima, ma quando si fa, si deve solo accettare la propria missione.
“Credo che quella luce potrà guidarmi/stavolta no, non mi opporrò/sembra quasi che speri anche lei di trovarmi/la cercherò./Cosa ci sarà? Cosa mi attende là?/L’orizzonte mi chiama a sé per nome/ed io non so dov’è che andrò./Anche il vento mi sfiora e continua ad attrarmi/lo seguirò/ce la farò!”
“And it really doesn’t matter if/I’m wrong or I’m right/Where I belong I’m right/Where I belong/See the people standing there/who disagree and never win/and wonder why they don’t get in my door”
(E, sul serio, non mi interessa se sto facendo bene o male. Dal mio punto di vista sto nel giusto. Vedo la gente stare lì fuori, a litigare, senza mai vincere. E mi chiedo perché loro non varchino la mia porta.)
Insomma, chi spinge qualcuno a una vita che non vuole, è veramente felice? Va ascoltato? Ricordiamoci che siamo noi a dare un valore alle parole degli altri. Per non tradire noi stessi, le parole che non rispecchiano il nostro interno, vanno ignorate. Ricordiamoci anche che chi pensa tanto alla vita degli altri, è del tutto insoddisfatto della propria.
Seguite sempre la voce interiore! Lei sa e non sbaglia mai.
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