Strappare lungo i bordi ci ha così tanto colpite che non possiamo fare a meno di concedergli un ulteriore spazio all’interno del nostro blog. Siamo quasi tentate di farlo rientrare nei nostri MustTo, ma ci riserviamo la possibilità di farlo in occasione di una seconda stagione. Quindi, siamo qui, per poter cercare di portare a termine la recensione che abbiamo iniziato, in anticipo, grazie alla Festa del Cinema di Roma.
Sei episodi. Solo sei piccoli episodi dalla durata di venti minuti ciascuno per poter arrivare alla conclusione e versare tutte le lacrime che si hanno in corpo. Zerocalcare è riuscito a realizzare un piccolo capolavoro che, attraverso i suoi tratti distintivi, colpisce alla bocca dello stomaco serrandola nel modo più meschino e dolce possibile. Preparatevi perché questo articolo conterrà spoiler per poterci permettere di scendere all’intimità della serie. Quindi andiamoci a prendere un gelato e mettiamoci comodi.
Le caratteristiche di questa serie ve le avevamo un po’ annunciate (leggi il precedente articolo): la romanità, la risata facile, la voce di Michele per tutti i personaggi meno che l’armadillo; tutti elementi tipici del fumettista romano che qui gli servono per non tradirsi e per non tradire le aspettative del pubblico suo fan. Vi è la verità mista alla veracità, quella di un romano che seduto al bar non sta facendo altro che raccontare una storia, interrompendosi qua e la da uno stimolo esterno venuto da chissà dove. Una narrazione che nella sua orizzontalità arriva alla sua morale, ma che nella sua verticalità scende -in ogni singolo episodio- su un aspetto particolare della quotidianità.
Gli aneddoti diventano, dunque, quegli attimi per poter stemperare la durezza del racconto che si cerca di portare a termine. Attimi fugaci nella quale la mente stessa del narratore deve prendersi una pausa per poter elaborare. Istanti nella quale pensare a come vanno in bagno le donne o se prendere o meno la pizza stocazzo che diventano fondamentali per poter dare lo zuccherino prima della medicina. Sì, perché strappare lungo i bordi è una medicina… o forse una terapia. Un intimo racconto, neanche fossimo da uno psicologo, che riesce a esorcizzare la perdita di chi si è amato. Si allontanano, così, le paure, le difficoltà, le distanze e il dolore che ancora serra l’anima del narratore con così tanta forza da non riuscire a fare un’imitazione della sua voce.
La scelta che è stata fatta sul cambiare le voci, sull’usare altri doppiatori, nell’ultimo episodio è quella che più di tutti colpisce al cuore dello spettatore. Il cambio di voce, infatti, diviene un elemento dissacrante all’interno un consolidato modo di narrare. Si crea, così, un contrasto tra ciò che c’era prima e ciò che c’è dopo; segnando, proprio attraverso questa scelta, il punto di arrivo del racconto.
Potremmo stare qui per pagine su pagine a parlare di ciò che Zerocalcare è riuscito a portare in scena e soprattutto la sapienza con cui è stato in grado di farsi aiutare dal comparto animazione, ma è solo necessario riuscire a fermarsi per poter comprendere la forza della narrazione da lui stesso creata.
Strappare lungo i bordi diviene, così, sinonimo di quel percorso che tutti proviamo a seguire; quella strada che crediamo di dover riuscire a strappare lentamente, con attenzione, per non uscire da ciò che in un certo senso ci è predestinato. Strappare lentamente, nonostante tutto e nonostante le paure o le difficoltà che ci si pongono davanti, nonostante quelle curve che ci impediscono lo strappo netto e veloce.
Strappare lungo i bordi ci fa comprendere come la vita in realtà non sia una gara, ma solo un percorso che -in fin dei conti- va come va.
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