Gli anni che abbiamo affrontato, sotto il punto di vista professionale e umano, non sono stati per niente facili da digerire. La reclusione all’interno delle mura domestiche ha dato modo all’immaginazione di poter esplodere. Cinematograficamente parlando, infatti, siamo in un periodo molto florido dal punto di vista produttivo. Film che sono stati fermi per anni, adesso, riescono a trovare il loro pubblico, ma molte narrazioni sono ancora ancorate a ciò che si è vissuto. “La Cura” è il film che non ci meritavamo sul Covid-19. Francesco Patierno torna alla Festa del Cinema di Roma e sceglie una chiave meta-cinematografica per rappresentare “La peste” di Camus.
Finzione e realtà, dunque, si mescolano all’interno della narrazione in una lenta discesa verso un limbo. Si resta sospesi in un mondo in cui Mandelli fa se stesso, ma gli altri attori intorno a lui recitano una parte. Un copione che si confonde, lentamente, per poter far fondere interpretazione e vita reale. Uno sguardo in camera, una richiesta di aiuto, ci ricorda che esiste una troupe dietro la macchina da presa. La quarta parete, in sostanza, viene abbattuta, ma ci lascia confusi e insipidi.
Il prologo è dato dal backstage: viene, di fatto, mostrata la troupe a lavoro sul set. Elemento che confonde i sensi dello spettatore perché in un primo momento ci si chiede se quello che vedremo potrebbe o meno essere un film che parli della difficoltà di lavorare a delle riprese con le restrizioni in corso. Sarebbe stato di certo molto interessante, invece ci si trova davanti a una pellicola di non facile lettura. Siamo davanti a un vortice di parole che si esaurisce in un vuoto cosmico. Un lento oblio di cui si può fare a meno e che esaspera lo spettatore nonostante il talento degli attori.
Mescolare la realtà alla finzione crea una complessità non da poco nel riuscire a concretizzare una narrazione coerente. Creando una storia che vuol spingere il pubblico a “scivolare” all’interno del vortice letterario si incorre nel pericolo di non essere chiari. Il che fa divenire il tentativo di Patierno fallimentare. Il film si connota di una sovrastruttura letteraria tanto intrisa di vocaboli da rendere poco fluidi i discorsi dei personaggi. C’è, in sostanza, poca credibilità tra le righe scritte di questa pellicola. Non si hanno le informazioni necessarie per poter conoscere i personaggi, tanto che è appunto difficile scinderli dai loro stessi ruoli. È complicato capire quando si entra o si esce dalla meta-finzione che è trasposta sullo schermo. Ciò fa divenire errori anche ciò che è voluto. Se si è digiuni di Camus, l’essere frastornati al termine del film è il minimo.
La Cura non sostiene il pubblico, al contrario lo sfinisce. Lo bombarda di elementi senza riuscire a colpirlo davvero. Bella Napoli completamente priva di turisti, una silente città morente che ci viene donata dalle riprese fatte col drone. Ma anche in questo caso, avrebbe avuto un maggiore impatto se essa fosse stata coerentemente inserita all’interno della narrazione Covid, senza dover apportare la letteratura all’interno della pellicola.
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