Riaffrontare la sala dopo ben tredici anni è un passo decisamente grosso che James Cameron ha voluto intraprendere per poter raccontare nuovamente la storia di Pandora. Il cinema, però, è cambiato soprattutto adesso che ci troviamo in un mondo post-pandemia che ancora è restio a tornare in sala. Era il 2009 quando il primo capitolo di Avatar andava incontro al confronto col pubblico, riuscendo a registrare il maggior numero di incassi (superato solo da poco da Endgame, ma rivinto con un nostalgico, restaurato e recente ritorno). Una storia travagliata, quella di James e la sua saga, ma che si connota dei toni dell’acqua per il suo secondo capitolo. Avatar - La via dell’Acqua esiste ed è arrivato al cinema facendo molto parlare di sé.
Avviso, questa recensione conterrà dei dettagli che potremmo definire spoiler, essendo passato il primo weekend ne vogliamo approfittare per fare un’analisi più attenta e dettagliata della pellicola.
Le tematiche centrali di questa storia le avevamo già affrontate nei post dedicati alle prime immagini mostrate alla stampa: un mondo che cerca di vivere nel suo perfetto equilibrio, ma che non ci riesce a causa di una nuova e imminente invasione; una famiglia che, pur di proteggere il proprio nido, decide di abbandonare la propria casa alla ricerca di una maggiore fortuna. Tematiche che vengono narrate nel più classico dei ritmi e che occupano quasi complessivamente le tre ore e venti di durata.
Perché oltre alla famiglia, ciò che viene mostrato è la ricerca di integrazione all’interno di un clan che non è proprio. Quando ci si sposta, basti pensare a tutte le migrazioni che in passato sono state fatte dagli stessi italiani in America, si cerca di assimilare la cultura del popolo autoctono pur contaminando i nuovi insegnamenti con ciò che ci appartiene già. Essere l’estraneo non è mai facile, specie quando si è discendenti di coppie “miste” come sono i nostri amati Sully. Il punto di vista centrale è, di fatti, quello dei giovani nati -o adottati- dall’amore tra Jake (Avatar del popolo del cielo, umano in origine) e Neytiri (figlia del leader del clan dei Omaticaya e futura Tsahìk): Neteyam (Jamie Flatters), Lo’ak (Britain Dalton), Tuk (Trinity Bliss) e Kiri (figlia adottiva i cui panni sono stati cuciti su una ringiovanita Sigourney Weaver).
Uomini e Na’vi si scontrano in una sorta di caccia all’uomo: uccidere e vendicarsi di Jake Sully è la missione del nemico. Per poter salvare la famiglia, dunque, i Sully si spostano a cecare asilo in altri clan, da qui dovranno conoscere la via dell’acqua e tutti gli usi che dovranno assimilare per non essere inutili.
Il punto di vista dei giovani è ben chiaro e presente all’interno della narrazione. Possiamo, infatti, considerare Lo’ak il reale protagonista del film, nonostante l’importanza che viene data anche alle abilità di Kiri o al coraggio della piccola Tuk. Le relazioni interpersonali che li vedono coinvolti sono le descrizioni delle più classiche dinamiche adolescenziali: non hanno la scuola, ma i bulletti esistono in ogni caso (specie se questi hanno il vantaggio di essere i figli del capo). Quindi l’ostracismo, l’isolamento, le prese in giro e il sentirsi degli alieni sono le sensazioni che dominano i giovani Sully. Ma pian piano l’integrazione avviene, tanto da poter considerare casa loro quel nuovo luogo.
Dall'altra parte, troviamo il tanto caro scontro generazionale. Nonostante, infatti, i genitori tentino molto spesso il dialogo con i propri figli, non sempre questo riesce ad andare in porto. Sully, in particolare, è il meno disposto ad ascoltare, specie se si tratta di Lo'ak "la testa dura". Il secondogenito, infatti, cercando di reggere il confronto con la figura del padre e con quella del fratello maggiore, si caccia spesso nei guai. Possiamo considerarlo la pecora nera e anche la causa di molti degli avvenimenti che si susseguiranno nel corso della narrazione.
Avatar, senza la bellezza di Pandora e tutto il virtuosismo tecnico di Cameron, sarebbe stata una storia decisamente molto basilare. La trama è lineare, chiara, quasi scontata nel suo flusso, ma è resa sicuramente interessante dalla curiosità che viene suscitata nella scoperta di nuove tribù. Solo che forse il regista si è un po’ dimenticato che non stiamo vedendo un documentario. Le parti più umane e sensibili periscono davanti alla bellezza stessa del mondo che è stato costruito, ma appunto questo si appiattisce diventano una mera tecnica che fa comprendere dove sono stati spesi i soldi. L’animazione nei combattimenti lo fa assomigliare molto a un videogioco, ma questo non sappiamo se sia dovuto al fatto che i videogiochi praticamente sono ormai realizzati con tecnologie analoghe.
Cameron comunque commuove, non possiamo negarlo. Il finale ci ha un po’ spezzati e davanti la seconda visione della pellicola abbiamo un po’ sentito quell’amaro in bocca dovuto al sapere come sarebbe andato. Vedere il film due volte ci ha aiutati a comprendere un po’ meglio la ciclicità narrativa che avevamo avuto modo di cogliere già col primo capitolo. Avatar uno si apriva e chiudeva con lo sguardo in camera di Jake: una mancata consapevolezza da una parte, una presa di coscienza dall’altra. In questo caso si apre con l’amore e con gli occhi di Neytiri in primo piano, il suo ventre gonfio simbolo di come la vita sia andata avanti. Ma la chiusura torna nuovamente su Jake che, riaprendo gli occhi, sa che deve affrontare una nuova consapevolezza e sa di esser stato reso un po’ miope dalla paternità. Cercare di crescere i suoi figli, di dar loro i giusti insegnamenti, la preoccupazione che non si facessero del male sono tutti elementi di un tentativo di protezione. Una miope ricerca della confort zone che gli fa perdere di vista la reale consapevolezza sui pericoli che devono affrontare. Da padre ha trovato il suo obiettivo, ma ha lasciato andare quello di leader. Da uomo sa che deve cercare una nuova strada per poter tenere i Sully uniti.
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