Se si è disposti ad ascoltare, a cogliere e a vedere, ci si accorgerà che, dentro ogni singola opera, un autore cela piccole parti di sé. Quando si scrive, si pensa, si racconta si scinde da se stessi e si diviene un tramite per raccontare dell’esperienze. Che siano personali o provenienti da terze persone, si mette a disposizione del pubblico la propria versione dei fatti e si lascia agli altri la libertà di poter rimescolare a propria volta quelle verità. Un racconto, dunque, come quello che Spielberg ha affidato ai suoi Fabelmans. Del resto, l’etimologia del cognome di questo nucleo familiare lascia intendere proprio questa chiave di traduzione per tutta la pellicola. Fabel, dal tedesco, vuol dire “favola”, unita al suffisso “man”, compone: l’uomo delle favole. Una storia che, attingendo da materiale auto-biografico, racconta la nascita del narratore che il pubblico ha imparato ad amare.
Il viaggio che Steven Spielberg compie è quasi un’analisi introspettiva di ciò che lo ha reso oggi. Uno sguardo al passato in grado di rimettere diversi tasselli al loro posto, così da lenire le cicatrici che il tempo ha lasciato sulla sua adolescenza. Attraverso gli occhi di Sammy Fabelman (Gabriel LaBelle), il regista ci porta alla sera in cui tutto è iniziato. Quando si ama, qualcosa o qualcuno, si ricorda il momento esatto in cui si è compreso l’entità di quell’amore. Era il 1957, quando, comodamente seduto sulla poltrona di una sala cinematografica, Sammy si è abbandonato all’estasi della visione di: “Il più grande spettacolo del mondo” di Cecil B. DeMille. Un incidente ferroviario, l’esatto momento in cui in scena veniva mostrata tutta la magia tecnica che quelle immagini in movimento potevano produrre. Un attimo di pura paura controllata, perché sì… tutto si riduce alla dimensione del controllo.
A sei anni si provano così tante emozioni insieme che non si riescono a scindere. Paura e eccitazione si fondono in pura meraviglia; la scoperta di qualcosa di nuovo incuriosisce e spaventa allo stesso tempo. Da una parte il padre Burt (Paul Dano), ingegnere informatico; dall’altra la madre Mitzi (Michelle Williams), pianista classica che ha lasciato la carriera per prendersi cura dei figli. Spiegazioni che, seppur logiche, vengono date alla visione dello scontro dei treni, una fantasia che però non ammette i limiti della ragione.
Sul monito del “bisogna fare ciò che ci rende felici”, dunque, non possiamo far altro che osservare il dispiegarsi della narrazione per l’arco di tempo che copre. Una famiglia che lentamente si disgrega, l’impotenza davanti alle scelte che gli adulti stanno prendendo. Una vita che va avanti nel tentativo di non deludere le persone che si amano. Un lento percorso che però, attraverso l’arte, viene curato ed espiato.
Tutto è partito da un semplice trenino e una cinepresa. Un hobby come tanti altri che ha creato il potere dell’espressione. Un gioco attraverso il quale si è riuscito a capire che cosa si sognasse di fare per il resto della propria vita. Fare arte è una vocazione. Una strada ostinata fatta di ostacoli che solo gli eletti possono riuscire a superare. Necessità caparbietà, forza d’animo, testardaggine. Bisogna riuscire a dire sì nonostante tutti i possibili no che si riceveranno e non solo: bisogna cercare quei no, perché sono legna per la fiamma che sprona l’artista.
Spielberg non ha mai smesso di puntare la propria macchina da presa sulla curiosità che ha governato il suo animo. Non si è fermato nonostante le difficoltà, nonostante gli ostacoli, fino a quando non è riuscito a rendere reale il suo amore. Il regista ha da sempre unito il sogno alla realtà, ha da sempre immaginato mondi immaginari nei quali l’impossibile era possibile. Non si è mai fermato nel cercare la tecnica, nel riuscire a realizzare quello che aveva nella propria testa, e ha traslato e tradotto i propri pensieri rendendoli visibili a tutti. In The Fabelmans mostra il suo rifugio, il suo tetto nelle tempeste, la sua ombra nella quale potersi nascondere. La settima arte come balsamo anche per i pensieri più oscuri e le paure più profonde.
Le nomination per gli Oscar gli sono praticamente assicurate. È uno dei film migliori usciti nell’ultimo decennio perché è cinema che parla di cinema. Un meta racconto che gioca con il ricordo i cui interpreti sono impeccabili. Paul Dano e Michelle Williams hanno praticamente in tasca la nomination per le statuette d’oro, ma anche il fantastico Gabriel LaBelle riesce nell’arduo compito di impersonare chi lo sta dirigendo sul set. Responsabilità, pesi gravosi su delle interpretazioni non facili da gestire, ma dal decisivo impatto emotivo. The Fabelmans commuove su più livelli: parla con la nuova generazione di sognatori, a chi continua a inseguire il proprio destino e la propria strada. Un’attenta analisi del proprio passato che non colpevolizza nessuno, al contrario ringrazia per chi si è oggi. Guardarsi indietro, specie se adulti, è decisamente impegnativo e farlo, senza puntare il dito, ma raccontando solo le proprie emozioni è un processo delicatissimo. A distanza di circa cinquant’anni dal divorzio dei propri genitori, quindi, questa esperienza può diventare la scusa per poter riuscire a creare dell’arte. Una propria versione da “l’orizzonte in alto” che fa
uscire dalla sala con un grandissimo senso di rivalsa.
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