mercoledì 7 dicembre 2022

#Venezia79: White Noise - Recensione

Tutti i nati prima dell’avvento della digitalizzazione hanno ben presente cosa sia il “rumore bianco”: quel suono che i televisori producevano durante la mancata sintonizzazione della frequenza del canale, oppure quella ricerca tra un canale radiofonico e l’altro. Quella continua ricerca di qualcosa che non fosse semplicemente il vuoto. Noah Baumanch ha dato questo titolo alla pellicola che ha aperto Venezia79. Un grande ritorno, successivo a Storia di un matrimonio, che tinge a fosche tonalità una critica dell’odierna società americana: troppo impegnata dalla paura della morte per riuscire davvero a vivere.
La pellicola è da oggi disponibile nel palinsesto di Netflix Italia.

(NO SPOILER)

Adattamento dell’omonimo romanzo del 1985, firmato da Don DeLillo, il film ci porta nel Midwest all’interno di una famiglia borghese: il padre, Jack Gladney (Adam Driver), è un docente universitario ritenuto il massimo esperto di totalitarismi -specie della vita di Hitler-; la madre, Babette Gladney (Greta Gerwing), un’insegnante di ginnastica posturale che ha frequenti vuoti di memoria; e i quattro figli. Siamo, dunque, in quella che nella pellicola stessa viene definita come “la culla per la disinformazione di massa”: una famiglia che si muove nel frenetico e costante tentativo di vivere. Un vuoto, riempito solo da frenetiche circostante, che ci anestetizza e ci spinge a vivere, il più delle volte, in un limbo fatto di attese e di paure. Un rumore bianco che ci accompagna alla ricerca di un evento per poi passare a quello successivo.

Il lavoro di Baumach è diviso in tre atti: la narrazione si sviscera in momenti di pura frenesia attiva, istanti pieni di follia e perfettamente orchestrati dalla costante paura di essere su un precipizio apocalittico, alternandosi a minuti di pura intimità nei quali è possibile cogliere tutta la caducità della vita e la fragilità dell’animo umano. Il tutto è perfettamente orchestrato dalla musica firmata da Danny Elfman e dal concitato montaggio di Matthew Hannam. Un miscuglio di generi che ne condensa il ritmo, ma allo stesso tempo gioca di parallelismi neanche troppo sottili.

Siamo davanti a un film che mette molto in ballo e che, complice la sua durata, mette insieme così tante tematiche da poter esser diviso in tre diversi filoni. È come se si fosse fatta un’ellisse di tre storie e le si fosse raccontate in un unicum in grado di trattare i temi più sensibili della nostra umanità, ma allo stesso tempo riesce a inquadrare tutto l’insieme che è stata la cultura americana dal secondo dopo guerra a oggi. Dal punto di vista registico questo film non ha paura di morire e di rivivere in ogni singolo atto.
La cultura pop, così, trova la sua massima espressione. Il consumismo la sua più pura rappresentazione. La paura fagocita la narrazione esattamente come fa con i suoi protagonisti. Un'America sul costante orlo di un precipizio sociale che cerca la propria speranza per poter preservare quel "paradiso" costituito dal nucleo familiare. Questo costante rumore bianco che vinciamo con la speranza che ci sia un’altra frequenza sulla quale poterci sintonizzare. Un costante timore delle incertezze che ci spinge ad agire seguendo la sopravvivenza attaccati alla vita.

I parallelismi in questa storia le permettono di vincere i confini dello spazio-tempo, in una sorta di ciclicità immortale che ci rappresenta al di là delle epoche e dei del progresso tecnologico. Una storia di vita e di morte: un limbo nel quale, molto spesso, non capiamo neanche di stare. Una costante incertezza che ci spinge a stare, nel bene o nel male, insieme.

Quando ci sono pellicole che riescono a trattare la debolezza umana e le incertezze della vita, in un modo così frenetico e dettagliato, non possiamo fare a meno di consigliarne la visione.

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