Oggi analizziamo il ventesimo canto dell’Inferno, dedicato ai maghi e agli indovini.
Al solito vi ricordiamo che analizziamo il canto solo ed esclusivamente dal punto di vista esoterico, comparandolo con quello che è stato, ed è, il nostro Cammino Spirituale.
Questi articoli, insomma, servono solo come spunti di riflessione su noi stessi, dove ogni protagonista che incontriamo è una parte di noi.
Una dote che non deve mai mancare a chi vuole intraprendere un Cammino Spirituale, o un lavoro su di sé, è sicuramente l’onestà nei propri confronti: è di estrema importanza, infatti, sapersi mettere in gioco e abbandonare ogni illusione di perfezione, credendoci invincibili e pensando che i peccati non ci appartengano.
Ricordiamo anche che ci riferiamo al peccato come un mancato rangiungimento di un obiettivo o di uno scopo.
Di nova pena mi conven far versi
e dar matera al ventesimo canto
de la prima canzon, ch’è d’i sommersi.
Io era già disposto tutto quanto
a riguardar ne lo scoperto fondo,
che si bagnava d’angoscioso pianto;
e vidi gente per lo vallon tondo
venir, tacendo e lagrimando, al passo
che fanno le letane in questo mondo.
Come ‘l viso mi scese in lor più basso,
mirabilmnete apparve esser travolto
ciascun tra ‘l mento e ‘l principio del casso,
ché da le reni era tornato ‘l volto,
e in dietro venir li convenia,
perché ‘l veder dinanzi era lor tolto.
Forse per forza già di parlasia
si travolse così alcun del tutto;
ma io nol vidi, né credo che sia.
Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto
di tua lezione, or pensa per te stesso
com’io potea tener lo viso asciutto,
quando la nostra imagine di presso
vidi sì torta, che ‘l pianto de li occhi
le natiche bagnava per lo fesso.
La prima immagine che abbiamo di questi dannati riguarda un pianto silenzioso. Ecco, concentriamoci sul silenzio: queste anime non proferiscono parola, tacciono anche nel lamento che è visibile solo per le lacrime che scorrono sul loro volto.
Più il Poeta osserva in basso, e più nota dettagli e quello che più li presta meraviglia è il fatto che il volto di questi dannati è totalmente rivolto all’indietro, in una posizione innaturale; il loro pianto, quindi, va a bagnare le natiche invece che scendere avanti sul petto.
A questa visione Dante non riesce a trattenersi e anche lui comincia a piangere.
Oggigiorno diremmo che Dante sta mostrando tantissima empatia per queste anime, e leggendo il tutto dal punto di vista esoterico, potremmo ben intuire il perché: questo girone riguarda molto il Poeta. È come se vedendo la condanna delle altre anime, lui sapesse che la sta vivendo sulla sua pelle.
Dante siamo anche noi e non è un caso se quando procediamo per il Cammino Spirituale, quando incontriamo persone con i nostri stessi traumi, o peccati simili commessi, tendiamo a mostrare più vicinanza e compassione.
Certo io piangea, poggiato a un de’ rocchi
del duro scoglio, sì che la mia scorta
mi disse: «Ancor se’ tu de li altri sciocchi?
Qui vive la pietà, quand’è ben morta;
chi è più scellerato che colui
che al giudicio divin passion comporta?
“Qui vive la pietà, quand’è ben morta”. La bontà, il guardare senza giudizio, può esserci solo quando abbandoniamo del tutto i semi di certi comportamenti scorretti, quindi ogni lacrima versata da Dante fa parte della sfera del sentimentalismo: piango, mi mostro affranto per il tuo dolore, sperando così di risolvere il mio.
Ma Virgilio, come ogni Maestro che si rispetti, non si fa prendere da tale emotività e rimprovera Dante.
In effetti sfociare nel vittimismo serve a ben poco: dobbiamo curare le nostre ferite e perdonarci, certo, ma non possiamo farlo tra le lacrime di un’arrendevolezza. Battisti nella sua “La collina dei ciliegi” canta: “E se davvero tu vuoi vivere una vita luminosa e più fragrante/cancella col coraggio quella supplica dagli occhi.”
Non possiamo guardarci dentro, vedere i nostri demoni e avere la reazione che siamo completamente soggiogati da loro.
Drizza la testa, drizza, e vedi a cui
s’aperse a li occhi d’i Teban la terra;
per ch’ei gridavan tutti: ‘Dove rui,
Anfiarao? perché lasci la guerra?’.
E non restò di ruinare a valle
fino a Minòs che ciascheduno afferra.
Mira c’ha fatto petto de le spalle;
perché volse veder troppo davante,
di retro guarda e fa retroso calle.
Virgilio qui spiega anche perché le anime volgono e camminano all’indietro: in vita hanno voluto sapere con ogni mezzo il loro futuro, avere una qualsiasi certezza riguardo l’avvenire, illudendosi di poterlo cambiare e ora sono costretti a guardare sempre indietro.
Non è forse così anche per noi? Non cerchiamo in maniera quasi compulsiva di avere certezze su quello che sarà? Nei nostri giorni non è solo questione di leggere oroscopi o consultare i tarocchi, ma anche ricercare in maniera ossessiva conferme nelle proprie convinzioni.
“Starai per sempre con me?”, “Entro quando cambierò casa?”, “Voglio cercare un modo per guadagnare di più”. E che accade quando non ci riusciamo? Siamo intrappolati nel passato. Facciamo degli esempi: se ci lascia la persona che ci aveva promesso amore eterno tendiamo ad andare avanti con la nostra vita con maggiore lentezza perché tutto ci riporta alla relazione conclusa.
Non vogliamo iniziare il pippone del “lasciare andare ogni certezza”, anche perché fa parte della natura umana trovare sicurezza in ciò che non si conosce, ma prendiamoci del tempo per riflettere su quanto di quello che facciamo nelle nostre giornate è finalizzato per l’illusione che ci stiamo costruendo il futuro, quando il futuro è già costruito…
E ora capiamo anche Dante: in esilio scrive la Divina Commedia e invece di andare avanti, ha un enorme rancore – giustificato o meno – nei confronti dei suoi nemici. Non sta anche lui vivendo guardando sempre il passato? È anche un po’ il discorso che vi abbiamo fatto negli articoli Morte, Dolore e Vuoto presenti nell’etichetta Mitologia.
Vedi Tiresia, che mutò sembiante
quando di maschio femmina divenne,
cangiandosi le membra tutte quante;
e prima, poi, ribatter li convenne
li duo serpenti avvolti, con la verga,
che rïavesse le maschili penne.
Aronta è quel ch’al ventre li s’atterga,
che ne’ monti di Luni, dove ronca
lo Carrarese che di sotto alberga,
ebbe tra’ bianchi marmi la spelonca
per sua dimora; onde a guardar le stelle
e ‘l mar non li era la veduta tronca.
E quella che ricuopre le mammelle,
che tu non vedi, con le trecce sciolte,
e ha di là ogne pilosa pelle,
Manto fu, che cercò per terre molte;
poscia si puose là dove nacqu’io;
onde un poco mi piace che m’ascolte.
Manto dà poi origine alla città natale di Virgilio, Mantova ed è per questo che la Guida vuole parlare della sua storia.
Quello che può sembrare come un distogliere Dante dal suo peccato, è in realtà un metodo comune nel Cammino Spirituale: quando un nostro Maestro nota in noi una ferita emotiva profonda, prova a curarla parlando di sé. Questo ci fa sentire meno soli e ci dà un esempio importantissimo: se lui/lei è riuscito/a, posso anch’io.
Virgilio, ai tempi, era visto come un mago e indovino, un po’ come noi possiamo considerare ora Nostradamus. Ed è per questo che diventa a tutti gli effetti il protagonista di questo Canto: ci aiuta a toglierci dalla testa l’idea che il futuro sia per noi controllabile, che possiamo deciderlo cambiando quelle che sono le nostre sorti.
Nelle sue parole c’è come una voglia di riscatto, di farci capire quanto sia stato male interpretato.
Poscia che ‘l padre suo di vita uscìo
e venne serva la città di Baco,
questa gran tempo per lo mondo gio.
Suso in Italia bella giace un laco,
a piè de l’Alpe che serra Lamagna
sovra Tiralli, c’ha nome Benaco.
Per mille fonti, credo, e più si bagna
tra Garda e Val Camonica e Pennino
de l’acqua che nel detto laco stagna.
Loco è nel mezzo là dove ‘l trentino
pastore e quel di Brescia e ‘l veronese
sagnar poria, s’e’ fesse quel cammino.
Siede Peschiera, bello e forte arnese
da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi,
ove la riva ‘ntorno più discese.
Ivi convien che tutto quanto caschi
ciò che ‘n grembo a Benaco star non può,
e fassi fiume giù per verdi paschi.
Tosto che l’acqua a correr mette co,
non più Benaco, ma Mencio si chiama
fino a Governol, dove cade in Po.
Non molto ha corso, ch’el trova una lama,
ne la qual si distende e la ‘mpaluda;
e suol di state talor esser grama.
Quindi passando la vergine cruda
vide terra, nel mezzo del pantano,
sanza coltura e d’abitanti nuda.
Lì, per fuggire ogne consorzio umano,
ristette con suoi servi a far sue arti,
e visse, e vi lasciò suo corpo vano.
Vorremmo concentrarci – ripetiamo, solo perché stiamo analizzando il tutto dal punto di vista esoterico – sull’ultimo verso dell’ultima terzina: “e visse, e vi lasciò suo corpo vano.”
Manto trova un luogo dove potersi nascondere quando la sua città (Tebe) è sotto l’assedio di Creonte. Lì vive, praticando le arti magiche a cui era tanto devota. Come tutti muore, ma la scelta della parola vano non è casuale. Certo, può significare “senza vita”, a sottolineare il fatto che Mantova sorga sulla sua tomba; ma può anche significare “privo di consistenza materiale”. Nella sua etimologia latina vanum vuol dire: “vuoto”, “inutile”.
Con la scelta delle parole Dante sembra ammonirci: possiamo anche scegliere di controllare il futuro, ma tutto ciò che faremo sarà una perdita di tempo. Ci ricorda un verso di una canzone di Masini, “Fino all’ultimo minuto”: “Paga per fargli leggere un futuro che sta già scrivendo lei”.
Li uomini poi che ‘ntorno erano sparti
s’accolsero a quel loco, ch’era forte
per lo pantan ch’avea da tutte parti.
Fer la città sovra quell’ossa morte;
e per colei che ‘l loco prima elesse,
Mantüa l’appellar sanz’altra sorte.
Già fuor le genti sue dentro più spesse,
prima che la mattia de Casalodi
da Pinamonte inganno ricevesse.
Però t’assenno che, se tu mai odi
originar la mia terra altrimenti,
la verità nulla menzogna frodi».
Interessante anche notare come Virgilio riporti una delle due versioni
sulla nascita di Mantova, quando lui in vita scrisse l’altra, e cioè che
Manto, scappata da Tebe, si rifugiò nel Lazio dove si sposò con il dio Tiberino, partorendo poi Ocno. Sarà proprio il loro figlio a fondare la città di Mantova, in onore della madre.
Torna
il messaggio, questa volta più velato di non prenderci troppo sul
serio, senza attaccarci alle nostre idee del passato. Ed è proprio così
che Virgilio nega se stesso.
E io: «Maestro, i tuoi ragionamenti
mi son sì certi e prendon sì mia fede,
che li altri mi sarien carboni spenti.
Ma dimmi, de la gente che procede,
se tu ne vedi alcun degno di nota;
ché solo a ciò la mia mente rifiede».
Dante tranquillizza Virgilio, dicendogli che crede solo alle sue parole e proprio per questo ribadisce che vuole sapere altri nomi, perché la sua mente vuole saperne di più.
Dante qui è un allievo già avanzato, in effetti non stiamo proprio nei primi canti dell’Inferno. Sa che tutto quello che gli viene mostrato è per la sua crescita personale e non vuole farsi mancare nulla. Vuole conoscere di più perché già sa che osservare è il passo più grande per comprendere.
Sentiamo un moto di ammirazione per questo momento, perché vi garantiamo che non è facile arrivare a tale consapevolezza. Ribadiamo che non è questione di tempo umano, si può lavorare su se stessi per una vita e non arrivare mai a questo punto. Abbiamo, infatti, visto tante volte persone incrociare le braccia, battere i piedi e rodersi il fegato – e non solo – appena vedono in loro qualcosa che non va. Preferiscono non stare a sentire, chiudere gli occhi, “Living is easy with eyes closed/misunderstanding all you see” (trad. “è facile vivere a occhi chiusi/fraintendendo tutto ciò che vedi”) cantavano i Beatles nella loro Strawberry Fields Forever. Ecco quindi che continuare a osservare qualcosa che ci fa stare male è un vero e proprio merito.
Non è di certo un segreto che Dante si affidasse molto all’astrologia e ci credesse con convinzione, come un po’ tutti ai tempi; questo sarà più visibile in Purgatorio e in Paradiso, quindi non ci dilungheremo ulteriormente.
Allor mi disse: «Quel che da la gota
porge la barba in su le spalle brune,
fu – quando Grecia fu di maschi vòta,
sì ch’a pena rimaser per le cune –
augure, e diede ‘l punto con Calcanta
in Aulide a tagliar la prima fune.
Euripilo ebbe nome, e così ‘l canta
l’alta mia tragedìa in alcun loco:
ben lo sai tu che la sai tutta quanta.
Virgilio, infatti, dice a Dante che conosce molto bene Euripilo, visto che sa tutta l’opera, ma il Dante che scrive fa un errore definendolo come indovino.
Euripilo, però, era solo un messo mandato a consultare l’Oracolo di Delfi dagli Achei, che fremevano di apprendere prima del tempo le sorti della Guerra di Troia.
Vediamo tutti questi minuscoli errori come ben voluti da Dante stesso, proprio per tornare al discorso che la logica umana non potrà avere spazio in quello che sarà il Paradiso. Dante ci esorta ad abbandonare il filo di certi ragionamenti, e ci semina preziosi consigli sul come farlo.
È infatti importante sapere se Euripilo era o non era un indovino? Il peccato lo compie solo chi gioca con le arti divinatorie, o anche chi fa di tutto per voler prevedere il futuro?
Quell’altro che ne’ fianchi è così poco,
Michele Scotto fu, che veramente
de le magiche frode seppe ‘l gioco.
Vedi Guidi Bonatti; vedi Asdente,
ch’avere inteso al cuoio e a lo spago
ora vorrebbe, ma tardi si pente.
Vedi le triste che lasciaron l’ago,
la spuola e ‘l fuso, e fecersi ‘ndivine;
fecer malie con erbe e con imago.
L’altro nome è quello di Asdente, un ciabattino di Parma che divenne poi un famoso indovino a cui si affidavano religiosi e politici del tempo.
Stessa sorte tocca anche alle donne che hanno abbandonato le loro attività quotidiane per dedicarsi alla magia.
Certo, avere certe doti fa gola a tutti e non ce la sentiamo di escludere l’esistenza di determinati poteri, ma è vivere per essi che ci porta a intraprendere la strada sbagliata, perché ci distoglie dall’importanza del momento presente, l’unica cosa che davvero conta.
Ma vienne omai, ché già tiene ‘l confine
d’amendue li emisperi e tocca l’onda
sotto Sobilia Caino e le spine;
e già iernotte fu la luna tonda:
ben ten de’ ricordar, ché non ti nocque
alcuna volta per la selva fonda».
Sì mi parlava, e andavamo introcque.
Dante non si sofferma troppo con le anime, sia perché sono loro per prime silenziose, sia perché – come abbiamo visto – lui sa di farne parte. Comprende perfettamente la spinta che porta gli umani a divinizzare il futuro, non c’è bisogno di ulteriori spiegazioni. Così Virgilio lo incita a proseguire il cammino.
Il prossimo mese analizzeremo il XXI canto, quello dei diavoli e dei barattieri.
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