Non è raro, poi, imbattersi in case dove le poesie di Trilussa sono appese al muro, incorniciate, lette e rilette fin dalla più tenera età. Con buona pace di chi al tempo lo etichettava come poeta lontano dalla conoscenza della vera Roma.
Ve ne vogliamo parlare oggi, a settantadue anni dalla sua morte.
Trilussa nasce a Roma il 26 ottobre
1871, secondogenito di Vincenzo Salustri, cameriere nato ad Albano
Laziale, e Carlotta Poldi, una sarta nata a Bologna.
La sua infanzia è da subito travagliata: a un anno dalla sua nascita,
nel 1972, la sorella maggiore Elisabetta muore per difterite; l’anno
successivo, quando Carlo ha quindi solo due anni, muore anche il padre.
La madre è così
costretta a trasferirsi a via Ripetta, ma dopo undici mesi il marchese
Ermenegildo Del Cinque, padrino del piccolo Carlo, accoglie Carlotta e
il bambino nella sua abitazione: il palazzo di piazza di Pietra, in
pieno centro a Roma: è infatti a pochi passi da via del Corso e dal
Pantheon.
Come possiamo ben
immaginare, il marchese è circondato da numerose conoscenze in ambito
artistico e culturale, tra queste spicca Filippo Chiappini (1836-1905),
poeta romanesco, che in suo sonetto: “Ar marchese Riminigirdo Der
Cinque” cita chiaramente Carlotta, lasciando intendere che i due si
conoscessero molto bene, e difatti Chiappini diverrà a tutti gli effetti
il professore di Carlo, anche se quest’ultimo non sembra interessarsi molto allo
studio.
Nel 1877, infatti,
si scrive alle scuole San Nicola, ma quando nel 1880 affronta un esame
per poter entrare al Collegio Poli dei Fratelli delle scuole cristiane,
lo fallisce ed è costretto a ripetere il secondo anno. Non va meglio
quello successivo, dove ripete anche il terzo, fino ad
arrivare al 1886, dove Carlo decide di abbandonare gli studi, nonostante
le pressioni della madre e del mentore Filippo Chiappini.
“La Luna piena minchionò la Lucciola:
– Sarà l’effetto de l’economia,
ma quer lume che porti è deboluccio…
– Sì – disse quella – ma la luce è mia!”
-Trilussa, “La lucciola”
Da questo momento, fino al 1889, Trilussa pubblica nella rivista cinquanta poesie e quarantuno prose.
La sua popolarità cresce a dismisura, soprattutto per la raccolta di poesie “Stelle de Roma”, con versi dedicati alle più belle donne romane. Questo non fa piacere a tutti, sia per i temi trattati – troppo volgari e diretti per i tempi -, sia perché altri poeti dialettali, tra cui proprio Filippo Chiappini, cominciano a criticarlo per utilizzare un romanesco troppo italiano.
In più le critiche si battono sul fatto che Trilussa non descrive la vera società popolare, bensì quella alto-borghese.
“Er Chirichetto d’una sacrestia
sfasciò l’ombrello su la groppa a un gatto
pe’ castigallo d’una porcheria.
– Che fai? – je strillò er Prete ner vedello
– Ce vò un coraccio nero come er tuo
pe’ menaje in quer modo… Poverello!...
–Che? – fece er Chirichetto – er gatto è suo? –
Er Prete disse: – No… ma è mio l’ombrello! –”
-Trilussa, “Carità cristiana”
Comunque, si sa, anche la cattiva pubblicità è pur sempre una buona pubblicità e Trilussa accresce il suo nome, ma si va sfaldando la collaborazione col “Rugantino”. Comincia però a lavorare con l’editore Perino, pubblicando “Er Mago de Bborgo. Lunario pe’ ‘r 1890”, un almanacco in collaborazione con Francesco Sabatino (Padron Checco) e il disegnatore Adriano Minardi (Silhouette).
In contemporanea pubblica poesie e prose su altri periodici del nord come: “Il Ficcanaso” e “La Frusta”; nel 1891 comincia la sua fama in tutta Italia, perché scrive articoli di cronaca cittadina, ma anche satirici contro la politica del governo Crispi per un quotidiano nazionale: “Don Chisciotte della Mancia”. Nel 1893 il giornale cambia nome, divenendo: “Don Chisciotte di Roma” e a soli ventidue anni, Trilussa diviene parte del comitato redazionale dello stesso giornale.
Sul finire del 1894 e l’inizio del 1895, pubblica il suo secondo volume di poesie: “Quaranta sonetti romaneschi”, anche se ironicamente la raccolta ne conta quarantuno.
“Quanno, de notte, sparsero la voce
che un Fantasma girava sur castello,
tutta la folla corse e, ner vedello,
cascò in ginocchio co’ le braccia in croce.
Ma un vecchio restò in piedi, e francamente
voleva dije che nun c’era gnente.
Poi ripensò: «Sarebbe una pazzia.
Io, senza dubbio, vede ch’è un lenzolo:
ma, più che di’ la verità da solo,
preferisco sbajamme in compagnia.
Dunque è un Fantasma, senza discussione».
E pure lui se mise a pecorone.”
-Trilussa, “Bonsenso pratico”
I problemi economici, però, non tardano ad arrivare – si sa, gli artisti non sono bravi con le loro finanze – pare infatti che Trilussa, mentre si stava preparando alla pubblicazione di un’altra raccolta di sonetti, si affidò a un usuraio: Isacco di David Spizzichino, promettendogli di ripagare il debito appena avesse ricevuto i soldi della pubblicazione. Il lavoro di stesura, però, procede per le lunghe e l’usuraio lo intimidisce con una lettera minatoria. Tale lettera venne pubblicata nel 1898, come prefazione di: “Altri sonetti. Preceduti da una lettera di Isacco di David Spizzicchino”, al quale Trilussa dedica il libro.
Il carattere a dir poco eccentrico, ironico e poco incline a prendersi sul serio, lo porta anche a decantare i suoi versi nei salotti aristocratici, nei circoli culturali e nei caffè concerto, tanto di moda in quegli anni.
“Sai ched’è la statistica? È na‘ cosa
che serve pe fà un conto in generale
de la gente che nasce, che sta male,
che more, che va in carcere e che spósa.
Ma pè me la statistica curiosa
è dove c’entra la percentuale,
pè via che, lì, la media è sempre eguale
puro co’ la persona bisognosa.
Me spiego: da li conti che se fanno
seconno le statistiche d’adesso
risurta che te tocca un pollo all’anno:
e, se nun entra nelle spese tue,
t’entra ne la statistica lo stesso
perch’è c’è un antro che ne magna due.”
-Trilussa, “La statistica”
Nessuno riesce ad abituarsi sul serio a questo nuovo assetto, perché lo spettro del Comunismo sovietico terrorizza stati come l’Italia e l’Inghilterra, ancora ben saldi nella tradizione. Con questa ansia incombente, prende piede un altro orrore, all’epoca del tutto sottovalutato: il Fascismo, al quale Trilussa si è sempre opposto, definendosi apertamente un “non fascista”, perché poco gli piace il termine “antifascista”.
Nonostante una dittatura, continua la sua satira politica, denunciando non solo la corruzione e il fanatismo fascista, ma anche tutti i vizi e gli imbrogli che le più alte cariche tentavano di nascondere; al contrario di quanto si possa pensare, però, non ha mai problemi con il Regime, anzi, riesce a mantenere rapporti tranquilli e rispettosi con tutte le cariche del nuovo Stato.
Nel 1922 entra nell’Arcadia: l’accademia letteraria di Roma, fondata nel 1690 da Giovanni Vincenzo Gravina e Giovanni Mario Crescimbeni. Per l’Arcadia sceglie lo pseudonimo di Tibrindo Platea, appartenuto precedentemente al Belli.
“Conterò poco, è vero:
– diceva l’Uno ar Zero –
– ma tu che vali? Gnente: propio gnente
sia ne l’azzione come ner pensiero
rimani un coso vôto e inconcrudente.
Io, invece, se me metto a capofila
de cinque zeri tale e quale a te,
lo sai quanto divento? Centomila.
È questione de nummeri. A un dipresso
è quello che succede ar dittatore
che cresce de potenza e de valore
più so’ li zeri che je vanno appresso.”
-Trilussa, “Li nummeri”
Il 1° dicembre 1950 il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi lo nomina senatore a vita, ma la carica gli dura appena venti giorni perché muore il 21 dicembre dello stesso anno.
Secondo la sua fedele domestica Rosa Tomei, le sue ultime parole sono state: “Mò me ne vado”, rimanendo così fedele al non prendersi troppo sul serio.
Tra il quartiere Trastevere e Ponte Sisto è presente il
Monumento a Trilussa, nella piazza che porta il suo nome.
La tomba del Poeta è ancora oggi situata al cimitero monumentale del Verano.
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