Finalmente qualcosa che parla di disturbi mentali in modo corretto.
Non di disturbi psicologici in generale, ma di uno in particolare di cui si parla in modo fin troppo inadatto nell'ultimo periodo - o forse faremmo meglio a dire "negli ultimi anni" -.
E finalmente qualcosa che parla di uso di medicinali in modo non completamente irrealistico, senza demonizzare o esaltare quello che per tantissime persone rappresenta un'abitudine da portare avanti e un circolo vizioso allo stesso tempo, l'alleato più fedele e il più grande nemico.
"Take your pills" (in italiano "Hai preso le pillole?"), distribuito da Netflix e uscito nel 2018, riesce davvero in un'ora e ventisette minuti a mettere in tavola tutti o quasi tutti i pro, i contro, le testimonianze e le conseguenze di una serie di meccanismi della società - e non solo - da cui è sempre più difficile uscire.
"Chissà perché si dice <<Tutti soffrono un po' di ADHD>>. No, non è vero, tutti abbiamo delle distrazioni nella nostra vita ma non tutti ragionano come chi è affetto da ADHD. Uno dei primi ricordi che ho risale alla mia diagnosi, è deleterio sentirsi dire cose simili perché si finisce col delegittimare le difficoltà e il potere che l'ADHD può avere sulla vita di qualcuno; è un disturbo e vi ruotano attorno molti pregiudizi e la gente ne parla come se tutti ne fossimo affetti, ma non è vero."
Un disturbo, non una malattia come spesso viene presentato quello che in Italia è noto con l'acronimo DDAI (Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività) ma è globalmente conosciuto con la sigla ADHD (Attention Deficit Hyperactivity Disorder), un disturbo neuroevolutivo della famiglia dei disturbi dell'apprendimento (dislessia, disgrafia, disortografia e discalculia) e dei disturbi dello spettro autistico (autismo regressivo, Sindrome di Asperger, Sindrome di Rett) che nel nostro paese non è quasi conosciuto, ma che negli USA è posto perennemente sotto ai riflettori.
E i sintomi? Dipende, dipende se il disturbo nella persona è focalizzato sulla riduzione dell'attenzione, sull'iperattività e impulsività o se è combinato; noi oggi non vi elencheremo tutti i sintomi, sono troppi e variegati, ma proveremo a parlarne comunque. Almeno in piccola parte.
Quel che intanto possiamo dire è che si possono tutti confondere e scambiare fin troppo spesso per dei comportamenti nella norma o, ancor peggio, banalizzare e additarli come "infantili", "stupidi", talvolta "perfidi" e "spietati"; finché si è bambini (l'ADHD viene solitamente diagnosticato nei primi dieci anni di vita) va tutto bene perché si è quasi giustificati nel fare tutto, ma una volta adulti questi comportamenti possono diventare deleteri. D'altronde i comportamenti infantili lasciamoli all'età infantile, no?
"- Non faceva che fare a botte con un compagno di scuola che gli ha rotto il naso, ho dovuto denunciare l'altro ragazzo. Mi sembrava di non riuscire più a gestirlo [...] ci sono stati diversi incidenti, compiuti i quindici anni mi ha rubato l'auto.
- Per farci cosa?
- L'ha rubata e basta, sono andata a prenderla e non c'era più."
Sono queste le parole di Sherry, mamma di Rahiem, ragazzo delle superiori con una diagnosi di ADHD dall'età di sei anni, e comportamentalmente esempio massimo di uno dei sintomi più debilitanti: l'impulsività. Quell'impulsività che annebbia completamente la mente, che fa fare le cose col pilota automatico e che talvolta fa anche scordare le azioni compiute in preda a quei momenti di impulsività, la stessa che ti fa rubare una macchina o magari andare all'ospedale con il setto rotto a seguito di una rissa semplicemente "perché sì".
La stessa impulsività che fa anche costantemente parlare sopra alle persone, in modo completamente inadeguato, fa fare domande ancor prima che un concetto sia spiegato e che fa insultare, offendere, alzare la voce su qualcuno o che ancora, fa fare abuso di droghe e alcool, fa iniziare tremila faccende dentro casa e non ne fa finire nemmeno una, fa tentare il suicidio, fa prendere delle decisioni di vita o di morte con una leggerezza disarmante... "beh, cresci", direte voi, eppure buttarla lì con tanta semplicità è tutto tranne che d'aiuto. Facciamo prima a dire che in realtà peggiora solo il tutto.
E badate bene, sappiamo che non tutti ci ascolteranno, perché sappiamo che non stiamo parlando di un disturbo i cui i sintomi sono nella società visti collettivamente come "da persona che ha qualche problema" ma, come abbiamo già detto, vengono visti semplicemente come "comportamenti da bambino non cresciuto".
Se avete il coraggio però provate a dire a un paraplegico di alzarsi e camminare: vi assicuriamo che a meno che voi non siate Gesù Cristo, non verrete guardati troppo bene e quella persona non inizierà magicamente a fare l'impossibile.
"A volte scherzo sul fatto che ai miei tempi al college ci si drogava per estraniarsi, mentre ora lo si fa per concentrarsi. Questo la dice lunga sulla nostra società. Lo trovo un po' deprimente"
E l'alleato fedele - e peggior nemico - a cui abbiamo fatto accenno all'inizio dell'articolo chi è? Beh,
l'Adderall, il vero protagonista di questo documentario.
I Beatles "pre-Ringo" ad Amburgo con degli inalatori di Benzedrina |
Facenti parte delle droghe di sintesi, le anfetamine sono state scoperte per la prima volta nel 1887 dal chimico rumeno Lazăr Edeleanu all'Università di Berlino ma furono brevettate solo trentasette anni dopo, nel 1929. Nel corso degli anni fu distribuita sotto il nome di "Benzedrina" sotto forma di sostanza da inalare, prescritta per uso medico per liberare i seni nasali e divenne così facilmente reperibile che si faceva prescrivere dal medico di famiglia senza alcun problema.
Per comprendere quanto le anfetamine furono rilevanti nella società dobbiamo è quasi fondamentale nominare il dottor Max Jacobson, soprannominato "Dr. Feelgood" e conosciuto per aver prescritto anfetamine a numerosi personaggi come John Fitzgerald Kennedy, Judy Garland, Elvis Presley, Marilyn Monroe, Rosemary Clooney e Aretha Franklin; quest'ultima scrisse nel 1967 la canzone "Dr. Feelgood" con al suo interno un riferimento al medico ("Don't send me no doctor fillin' me up with all of those pills, I got me a man named Doctor Feelgood", trad. "Non mandarmi nessun dottore che mi riempie di quelle pillole, mi sono trovata un uomo chiamato Dr. Feelgood") e anche i Beatles gli resero omaggio con la canzone "Doctor Robert" presente nell'album "Revolver" del 1966.
"He's a man you must believe
Helping anyone in need
No one can succeed like Doctor Robert
Well, well, well, you're feeling fine
Well, well, well, he'll make you
Doctor Robert
My friend works for the National Health
(È un uomo in cui tu devi credere
Aiuta chiunque abbia bisogno
Nessuno può riuscirci come il Dottor Robert
Bene, bene, bene, ti senti bene
Bene, bene, bene, ti farà sentire bene
Dottor Robert
Il mio amico lavora per il Servizio Sanitario Nazionale)"
- The Beatles, "Doctor Robert", 1966.
E se pensate che gli anni '60 siano il picco di popolarità di queste droghe stimolanti, vi sbagliate di grosso: è nell'ultimo decennio che si sta rilevando una somministrazione di anfetamine mostruosa e preoccupante, anche a bambini di meno di dieci anni e anche a chi di ADHD non ne soffre affatto.
È un po' come essere tornati indietro nel tempo di una sessantina d'anni, solo che in questo caso i drogati non sono solo gli adulti e non ci si droga a scopo ricreativo o per motivi relativamente superficiali (come la perdita di peso): si fa per competizione, perché non è accettabile fermarsi, prendersi una pausa, accettare di essere umani. Nel mondo in cui viviamo bisogna essere più bravi e più forti di qualcuno, altrimenti non sei niente, rimani indietro e ti perdi.
E quindi vengono somministrate droghe a bambini semplicemente perché hanno dei comportamenti idonei alla loro età e perché semplicemente molto spesso "non fanno i bravi" e non prendono il massimo dei voti a scuola o sono un po' vivaci, gli stessi bambini che poi crescono e non sanno come uscire dal circolo vizioso della droga.
Guardando il documentario viene approfondito questo fenomeno, ma si fa la conoscenza anche di Eben Britton - ex attaccante dei Chicago Bears della NFL, considerato il miglior attaccante degli Stati Uniti e uscito di scena a soli ventisei anni proprio per colpa dell'abuso di Adderall - e Michael "Blue" Williams - CEO della Family Tree Entertainment e manager degli OutKast -, due figure completamente diverse con due esperienza completamente diverse del medicinale.
E noi invece ci sentiamo di ripetere quello che abbiamo detto all'inizio dell'articolo: finalmente un documentario che parla di disturbi e medicinali senza estremizzare in nessun modo nessuna delle due cose.
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