Nel settimo canto c’è un’introduzione di quello che è l’ottavo: troviamo infatti già gli iracondi, ma ora andremo a conoscerli meglio, in maniera più approfondita.
che noi fossimo al piè de l’alta torre,
li occhi nostri n’andar suso a la cima
per due fiammette che i vedemmo porre,
e un’altra da lungi render cenno,
tanto ch’a pena il potea l’occhio tòrre.
Ovviamente agli studiosi esperti della Divina Commedia non è mai sfuggita la domanda: perché Dante sembra tornare indietro nella scena? Il settimo canto si è concluso che già abbiamo visto la sorte toccata alle anime dell’ottavo canto, ora ci ritroviamo prima dell’entrata.
Che si tratti di censura o no, non importa. La spiegazione è per noi molto semplice: l’ira è un sentimento che è difficile da notare. Non sempre vediamo le azioni che intraprendiamo guidati da essa. Anche se è lampante dal punto di vista degli altri, perché noi non riusciamo a capire quando agiamo spinti dalla rabbia? Quante volte ci viene detto: "Ma che sei nervoso/a oggi?".
E attenzione con il raccontarvela perché non basta dire: “Ma io mica cedo all’ira, non ho mai picchiato nessuno, figuriamoci”. Perfetto. Quante volte siete rimasti bloccati nel traffico senza imprecare o insultare l’automobilista davanti a voi? Quante volte avete inveito contro l’autista di un autobus perché anche se avete corso e quasi raggiunto la fermata, non vi ha aspettati? Quante volte, alzando la serranda la mattina e vedendo la pioggia, avete fatto sì che il tempo meteorologico fuori influisse anche sul vostro umore? Ecco, in tutte queste occasioni, che lo vediamo da subito o no, cediamo all’ira. Ora è molto più semplice capire perché Dante abbia fatto un passo indietro.
Corda non pinse mai da sé saetta
che sì corresse via per l’aere snella,
com’io vidi una nave piccoletta
venir per l’acqua verso noi in quella,
sotto ‘l governo d’un sol galeoto,
che gridava: “Or se’ giunta, anima fella!”.
“Flegïàs, Flegïàs, tu gridi a vòto”,
disse lo mio segnore, “a questa volta:
più non ci avrai che sol passando il loto”.
Qual è colui che grande inganno ascolta
che li sia fatto, e poi se ne rammarca,
facesi Flegïàs ne l’ira accolta.
Dante descrive una barca che arriva a tutta velocità verso di loro. Chi la comanda è Flegias, personaggio mitologico simbolo dell’ira vendicativa e del fuoco. Nel mito, infatti, lui incendiò il tempio di Apollo solo perché il Dio aveva sedotto Coronide, sua figlia.
Flegias urla contro Dante, avendolo scambiato per un dannato. Ma ancora una volta Virgilio risponde con estrema calma, senza cedere ad alcuna emozione. È così fermo nelle sue parole, che persino Flegias è costretto a tenere per sé la rabbia.
Cosa ci insegna questo? Che quando accettiamo qualsiasi situazione per quella che è, i moti di rabbia dentro di noi cominciano ad arrestarsi. Attenzione, non vogliamo dire che la rabbia va repressa, al contrario. Così come uno scoglio non può arginare il mare, così come non possiamo controllare le bufere o le correnti marine, allo stesso modo non possiamo impedire alla rabbia di manifestarsi.
Ciò che dobbiamo cercare di fare è trovare un altro modo per esprimerla. Che sia prendere a pugni un cuscino, urlare da soli in una stanza, cantare a pieni polmoni una canzone, o prendere in mano un pennello e tirare fuori ciò che abbiamo dentro, la rabbia va espressa. C’è una netta differenza tra controllare la rabbia e farsi controllare dalla rabbia.
Mentre noi corravam la morta gora,
dinanzi mi si fece un pien di fango,
e disse: “Chi se’ tu che vieni anzi ora?”.
E io a lui: “S’i’ vegno, non rimango;
ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto?”.
Rispuose: “Vedi che son un che piango”.
E io a lui: “Con piangere e con lutto,
spirito maladetto, ti rimani;
ch’i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto”.
In queste tre terzine di battibecco, e nelle prossime ancora, troviamo per la prima volta un Dante che non ha pietà dell’anima che gli si avvicina. Anzi, più andiamo avanti con la lettura, più Dante sembra quasi accecato dalla sete di vendetta.
Allor distese al legno ambo le mani;
per che ‘l maestro accorto lo sospinse,
dicendo: “Via costà con li altri cani!”.
Lo collo poi con le braccia mi cinse;
basciommi ‘l volto e disse: “Alma sdegnosa,
benedetta colei che ‘n te s’incinse!
Quei fu al mondo persona orgogliosa;
bontà non è che sua memoria fregi:
così s’è l’ombra sua qui furïosa.
Quanti si tegnon or là su gran regi
che qui staranno come porci in brago,
di sé lasciando orribili dispregi!”.
E io: “Maestro, molto sarei vago
di vederlo attuffare in questa broda
prima che noi uscissimo dal lago”.
Ed elli a me: “Avante che la proda
ti si lasci veder, tu sarai sazio:
di tal disïo convien che tu goda”.
Dopo ciò poco vid’io quello strazio
far di costui a le fangose genti,
che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.
Tutti gridavano: “A Filippo Argenti!”;
e ‘l fiorentino spirito bizzarro
in sé medesmo si voleva co’ denti.
Dante confessa a Virgilio di voler vedere l’anima di Filippo sprofondare negli abissi dell’acqua torbida ancor prima di terminare la traversata. Virgilio abbraccia e bacia Dante lo rassicura del fatto che il suo desiderio verrà presto esaudito. Così è, infatti, e Dante ancora ringrazia e loda Dio.
Ma perché? Vedete, vi abbiamo detto quanto sia difficile il cammino iniziatico e non solo perché dobbiamo riconoscere in noi tutto il male. Quella è forse una piccola parte della sofferenza. Il cammino iniziatico ci obbliga a guarire ogni nostra ferita emotiva.
Filippo Argenti in vita ha picchiato Dante, ha sequestrato i beni del poeta finiti sotto sequestro, e si è opposto pesantemente alla revoca del suo bando. Pare comunque che anche Dante si sia più volte vendicato contro di lui. Insomma, contrariamente a quanto si pensi, in questo canto il Poeta non vuole disprezzare l’Argenti, al contrario: sta curando una sua ferita emotiva.
L’immagine di voler vedere sprofondare Filippo, non deve essere presa letteralmente. Se ripensiamo al nostro passato, e rivediamo chi ci ha ferito, dobbiamo cercare di visualizzarlo in un modo che ora non può più farci del male. Poi dobbiamo abbracciare la nostra persona che ha accusato il colpo. Ecco perché Virgilio (ricordiamoci il ruolo della guida: Virgilio è una parte di Dante) abbraccia e bacia il Poeta. Gli dà conforto, forza, sta guarendo la sofferenza.
Io vidi più di mille in su le porte
da ciel piovuti, che stizzosamente
dicean: “Chi è costui che sanza morte
va per lo regno de la morte gente?”.
E ‘l savio mio maestro fece segno
di voler lor parlar segretamente.
Allor chiusero un poco il gran disdegno
e disser: “Vien tu solo, e quei sen vada
che sì ardito intrò per questo regno.
Sol si ritorni per la folle strada:
pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai,
che li ha’ iscorta sì buia contrada.”
Lasciata indietro la ferita emotiva, Dante vede le mura della città di Dite, dove sono rinchiusi i dannati. Descrive le torri, ma soprattutto si sofferma sui diavoli che gli incutono un gran timore. Loro lo riconoscono come persona non morta, e si chiedono perché mai stia lì. Virgilio parla privatamente con loro.
Pensa, lettor, se io mi sconfortai
nel suon de le parole maladette,
ché non credetti ritornarci mai.
“O caro duca mio, che più di sette
volte m’hai sicurtà renduta e tratto
d’alto periglio che ‘ncontra mi stette,
non mi lasciar”, diss’io, “così disfatto;
e se ‘l passar più oltre ci è negato,
ritroviam l’orme nostre insieme ratto”.
E quel segnor che lì m’avea menato,
mi disse: “Non temer; ché ‘l nostro passo
non ci può tòrre alcun: da tal n’è dato.
Ma qui m’attendi, e lo spirito lasso
conforta e ciba di speranza buona,
ch’i’ non ti lascerò nel mondo basso”.
Così sen va, e quivi m’abbandona
lo dolce padre, e io rimangno in forse,
che sì e no nel capo mi tenciona.
Durante il cammino iniziatico, lo sappiamo molto bene, più entriamo nel profondo di noi stessi, e più ci aggrappiamo a qualcuno. Che sia un Maestro, un terapeuta, o un libro, non importa. C’è sempre il momento in cui quel salvagente sembra sfuggire al nostro controllo e rimaniamo soli.
Che si tratti di ore, giorni o mesi, noi proviamo una grandissima paura. Pensiamo che senza l’appiglio a cui eravamo legati, possiamo sprofondare o perderci nell’oscurità. Niente di più falso, ma ovviamente dobbiamo passarci per capirlo.
Chiuser le porte que’ nostri avversari
nel petto al mio segnor, che fuor rimase
e rivolsesi a me con passi rari.
Li occhi a la terra e le ciglia avea rase
d’ogne baldanza, e dicea ne’ sospiri:
“Chi m’ha negate le dolenti case!”.
E a me disse: “Tu, perch’io m’adiri,
non sbigottir, ch’io vincerò la prova,
qual c’ha la difension dentro s’aggiri.
Questa lor tracotanza non è nova;
ché già l’usaro a men segreta porta,
la qual sanza serrame ancor si trova.
Sovr’essa vedestù la scritta morta:
e già di qua da lei discende l’erta,
passando per li cerchi sanza scorta,
tal che per lui ne fia la terra aperta”.
Nonostante la volontà di Virgilio nel parlare con i diavoli, essi corrono dentro la città di Dite sbarrando le porte alla guida di Dante. Virgilio torna sconsolato dal Poeta, ma lo rassicura del fatto che comunque entreranno e potranno proseguire il cammino. I diavoli si comportano così, ed è cosa risaputa. Proprio per questo dovranno attendere, perché sicuramente qualcosa li aiuterà a proseguire.
Qui possiamo parlarvi ancora una volta di quanto il cammino iniziatico non sia per niente facile. Possiamo avere giorni in cui ci sembra semplice guardare il male al nostro interno, altri in cui è abbastanza fattibile riconoscere e curare una ferita. Ma ci sono anche volte in cui, pur provandoci e riprovandoci, non riusciamo a entrare in una nuova stanza oscura per riconoscere le nostre parti ombra.
Bisogna scoraggiarci? Certo che no. Ogni cosa avviene nel momento esatto in cui siamo pronti, non prima. Se troviamo dei blocchi che non riusciamo a togliere, delle porte aperte che non riusciamo ad aprire, dobbiamo solo attendere fiduciosi la Vita, (o Dio) che con la sua immensa bontà arriverà ad aprirci ogni via. Nel prossimo canto, infatti, Dante riuscirà ad attraversare le porte della città di Dite, e noi non vediamo l’ora di analizzare il tutto assieme a voi.
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