In questi giorni abbiamo scritto l’articolo sul XXVII canto della Divina Commedia (che uscirà l’ultimo sabato di luglio) e ci siamo imbattuti nella storia del toro di Falaride, che sinceramente non ricordavamo proprio.
Ci è sembrata così interessante, soprattutto per quel canto, che crediamo sia giusto riportarla anche sul blog.
Ci è sembrata così interessante, soprattutto per quel canto, che crediamo sia giusto riportarla anche sul blog.
Tra il 570 e il 555 a.C in Sicilia – più precisamente ad Agrigento – regnava un tiranno, forse tra i più crudeli mai esistiti, il suo nome era Falaride. Tale tiranno amava in modo viscerale le torture, soprattutto quelle più cruente, e per questo passava tutto il suo tempo a escogitare nuovi metodi, sempre più brutali, per dare il giusto supplizio ai suoi sudditi.
Erano in molti a cercare un modo per rabbonirselo, magari offrendo strumenti di tortura innovativi che potessero renderlo felice, e perché no? Compiacerlo a punto tale da farselo amico e fedele. Tra questi ci fu l’artigiano e fabbro Perillo che un giorno si presentò a Falaride con un toro di rame come dono.
Nel presentarglielo, Perillo disse: «Ho escogitato questo infallibile metodo di tortura che credo possa essere a te gradito» e, continuando a parlare in modo eloquente e chiaro, gli spiegò il funzionamento «Il condannato entrerà all’interno di questo bue, e una volta rinchiuso dentro, farai accendere un fuoco sotto l’apertura, in modo tale che quando la vittima urlerà per il dolore, sembrerà che a farlo sia l’animale e non l’umano. In questo modo non potrai mai essere mosso da compassione e rischiare di non portare a termine le tue torture».
Falaride, sorridendo sornione e assaporando come un bambino il momento adatto per utilizzare il toro, rispose: «Ma questo è proprio un dono straordinario che accetto molto volentieri. Visto che sei stato tu a inventarlo e a donarmelo, è giusto che tu sia anche il primo a sperimentarlo».
Così Perillo fu costretto a entrare nella macchina mortale da lui stesso creata.
Tale episodio è raccontato da Ovidio nei Tristia (III, XI, 41-54) e sempre di Ovidio è il commento che riprende Dante nel canto dedicato a Guido di Montefeltro: “La sua fine fu giusta, poiché non esiste legge più giusta di quella per cui chi è artefice di morte perisca per la sua stessa arte.” (Ars Amatoria I 655-656).
Il personaggio di Falaride è per lo più avvolta nel mito, molto probabilmente le sue gesta e il suo carattere sono descritti in maniera pomposa, rendendolo molto più negativo di quanto non fosse.
La causa della sua morte è incerta, visto che girano molte storie diverse a riguardo. Tutte, però, sono accomunate dall’insurrezione cittadina nei riguardi del despota. Alcune fonti parlano che lo stesso Falaride fu spinto dai suoi sudditi dentro il toro ricevuto in dono.
Anche del toro non ci sono notizie certe. Alcune fonti testimoniano la sua esistenza, altre no. Di sicuro, però, non è mai stato ufficialmente rinvenuto.
Nessun commento:
Posta un commento