Ecco che ci risiamo, l’ennesimo articolo autoreferenziale. Qualcosa scritto da me e per me, una sorta di pagina da custodire con gelosia ma che farò finta di “perdere”. E con “perdere” intendo toglierlo dalla mia personale custodia e darlo in pasto al mondo. Però forse è una retorica troppo azzardata. Forse non si tratta di “perdere” qualcosa (o uno scritto), ma di affidarlo al mare come un messaggio in bottiglia.
Tra l’altro, piccolo inciso, non so se i messaggi in bottiglia esistano per davvero, ma di certo io non ne ho mai visto uno.
Tornando a noi, è giunto il momento di iniziare a scrivere la lettera che farò finta di smarrire (o il messaggio che lancerò a mare). Basta tergiversare e prendere ulteriori righe di vantaggio, forse sperando segretamente che qualcuno di voi chiuda prima il contenuto.
Ebbene, tutti noi abbiamo un piccolo ricordo o una piccola opera di cui andiamo particolarmente fieri. La prima canzone che creai al PC quando avevo 16 anni, quella volta che mi sono laureato o quella volta che mi sono laureato di nuovo (eccomi, sto parlando di me).
Effettivamente non è lunga come lista, ma basta per essere esemplificativa.
Poi c’è anche qualche articolo o qualche racconto, qualcosa che ricordo di aver scritto con soddisfazione.
Ma a distanza di mesi lo vado a rileggere (per fare una mezza citazione a Elio, non sto parlando di “Confetti in macelleria”, ma “Confetti in macelleria” è un ottimo esempio).
Viene da chiedermi:
“Perché questa roba è così psicotica?”
“Perché sembra una parte malata che vuole mettersi in contatto con una parte sana?”
“Perché la prosa è così pesante? Me lo ricordavo più scorrevole…”
“Perché abuso di termini desueti?”
Di certo sapevo che non si trattasse di un capolavoro della letteratura, ma questa cosa è roba da studio clinico.
Da chiedersi se davvero l’abbia scritto io o se in quel momento io sia semplicemente stato il braccio di entità spirituali.
Eppure lo stile inaccessibile sembra proprio il mio. Il problema è che è inaccessibile anche a me stesso. Produco un sapere che non sono in grado di spiegare, un modo di agire che sembra nascere al di fuori di me.
Forse sarà roba da schizotipico, ma delle volte mi chiedo come abbia fatto a scrivere certe cose.
E poi, chissà, verranno altri inverni in cui mi specchierò in un lago ghiacciato ritrovando le mie parole perdute.
No. Basta metafore. O almeno, basta per questo articolo. Qui voglio essere chiaro, pungente e critico contro me stesso. Il mio ruolo sarebbe farmi capire, non rimanere incompreso.
Si può essere incompresi in un insieme e compresi in altri, è una questione astratta dell’algebra ma ben presente nella realtà dei fatti.
In questo caso gli insiemi sono “io” e “non io”. All’io succede qualcosa nel corso del tempo, e si ritrova a non riconoscersi più in se stesso. Ed è qui che l’io smette di rivedersi in se stesso e crea il “non io”.
Cosa ho imparato da tutto ciò? Che il non riconoscersi parte del tutto è un illusione, un prestigio del tempo che è riuscito a frammentare l’io. E non è affatto una metafora.
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