“A Thousand and One” è il lungo metraggio d’esordio alla regia di A.V. Rockwell, vincitore al Sundance come “miglior film drammatico”, adesso si avvicina alle sale italiane partendo dal concorso di Taormina.
Una storia drammatica, dunque, quella che vede come protagonista Inez (la cantante Teyona Taylor) e una New York vorace e frenetica. La ventiduenne è appena uscita di prigione e tenta di riprendere i contatti con chi l’attesa, in più si affanna alla ricerca di un lavoro offrendo per la strada di acconciare e tagliare i capelli dei passanti. Tutto sembra frenetico, rapido, la voglia di riappropriarsi della propria vita che viene però interrotta dall’incontro con Terry. Lui, un ragazzino di soli sei anni, che sembra avercela con lei; non le rivolge parola, ma allo stesso tempo scappa dalla casa famiglia in cui è in affido per poterla raggiungere. Sembrano conoscersi, sembrano effettivamente madre e figlio che devono riprendere il loro percorso di vita insieme. Così Inez decide di portarlo via, di tenerlo con sé, di non lasciarlo nuovamente in quel circuito di affidi e rinunce. Lo porta in un appartamento nel quartiere di Harlem e se lo tiene stretto.
Harlem, così, torna a essere sfondo a quelle storie quotidiane che tutt’oggi continuano a susseguirsi. Oggetto di scenografia di molti film che trattano tematiche simili, qui entra quasi in simbiosi con la vita dei suoi protagonisti. Ripercorriamo, in questo modo, la loro vita attraverso quattro annate fondamentali: il 1994, anno di inizio di questa storia; il 2001, periodo di controlli e restrizioni in un’America sconvolta dagli attentati terroristici; e infine, il 2004, momento in cui tutta la vita di Terry viene messa sottosopra.
Vi è una sorta di circolarità all’interno di questo racconto. Si inizia un po’ dove si andrà a finire, con la ricerca di un posto sicuro e con delle certezze che rapidamente vengono meno. Perché se Terry fino ai suoi quasi diciotto anni ha riconosciuto in Inez la propria figura materna, in realtà ciò è una grande menzogna.
New York, quindi, si muove tra le diverse dinamiche socio-politiche che l’hanno riguardata. Povertà e razzismo come corde sottili che tessono delle ragnatele all’interno di una storia quotidiana. Quella che A.V. Rockwell racconta è una storia di bisogno, di necessità, di identità. I primi piani, i focus che si contrappongono ai campi larghi sulla città, sono così stringenti da far sentire il senso opprimente vissuto dai suoi protagonisti.
Per certi versi, questo lavoro, ricorda ciò che era stato realizzato con “Moonlight”: la divisione in tre atti e una ricerca eseguita dai protagonisti molto simile. Ma non siamo semplicemente davanti a un racconto di formazione, quanto più davanti la casualità della vita e il caos che essa molto spesso comporta. Ma se manca la circolarità che è presente in Moonlight, qui si riversa in una sorta di “ricominciare da capo” per il giovane Terry.
È una storia interessante quella portata sulla scena che è in grado di catturare l’attenzione del suo spettatore. Questo esordio registico porta con sé una grande consapevolezza nella sua realizzazione.
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